Che spettacolo patetico! Ma davvero pensavate che Facebook fosse soltanto un innocuo social network dove postare le foto del delizioso piatto di pesce che state gustando in riva al mare o immortalare i primi passi di vostra figlia sulla battigia? Davvero siete così ingenui? A vostro avviso, se non fosse stato un pericoloso collettore di dati sensibili per marketing miliardario delle corporations e ben più pericolose operazioni di controllo sociale delle agenzie di intelligence, sarebbe diventato il colosso che è e con la capitalizzazione di Borsa che ha? Pensateci, un sito dove scrivere pensierini da Bacio Perugina e postare selfies delle vacanze che vale più della General Motors: non vi era sorto il dubbio che dietro la brillante intuizione di Mark Zuckerberg ci fosse ben altro? Comunque sia, ora la faccenda appare chiara: lo scandalo legato a Cambridge Analytica e ai dati di 50 milioni di americani e non carpiti e trattati come materiale sensibili per le presidenziali Usa del 2016 e per il referendum sul Brexit ha – almeno spero – fugato ogni dubbio residuo al riguardo. Trattasi di strumento d’intelligence, per quanto apparentemente giocoso. Pensateci due volte, adesso, prima di postare.
Detto questo, possiamo davvero dire che George Orwell, Aldous Huxley e Stanley Kubrick erano dei posati e concreti esegeti del pragmatismo, l’aura di maestri dell’arte visionaria che li accompagna viene spazzata via dalla realtà: a fronte del crollo in Borsa di Facebook, legato appunto all’esplosione del caso Cambridge Analytica, sapete infatti quale piega mediatica ha immediatamente preso il caso? Dietro quell’agenzia di Pr c’era Steve Bannon, l’ex consigliere politico di Donald Trump. Quindi, preso atto che il Russiagate e il lavoro della Commissione guidata da Robert Mueller è credibile quanto una trasmissione scientifica sui vaccini presentata da un esponente dell’M5S, ecco che salta fuori la pista destabilizzante alternativa, quella interna e social: se il tycoon è arrivato a Pennsylvania Avenue è tutta colpa di Facebook, dei suoi metadati e dell’uso fraudolento fattone da Cambridge Analytica. Ovvero da Steve Bannon. Ovvero da chi, non più di tardi di un mese fa, definiva di fatto Trump un imbecille nell’ennesimo libro-bomba sul miliardario Usa, grazie al cielo finito in fretta nel dimenticatoio editoriale.
Peccato che in America circoli anche un’altra vulgata, immediatamente ripresa da WikiLeaks in un tweet, eccolo:
Facebook scandal widens: Democrats got hold of all Facebook profiles and friends (“the entire social graph”) according to former Obama targeting team leader Carol Davidsen https://t.co/skXe3ytqZP
— WikiLeaks (@wikileaks) 19 marzo 2018
A parlare così, rivendicando il fatto che Facebook fosse dalla loro parte e che il comitato democratico gestisse milioni di dati di provati cittadini, senza che il buon Zuckerberg (uno che ti sospende per 30 giorni se usi il termine “negri”, anche se parli di Toni e si tratta di un cognome) avesse nulla da ridire, è Carol Davidsen, capo del cosiddetto “targeting team” di Barack Obama! Ma guarda un po’ il nostro premio Nobel, utilizzava dati sensibili fraudolenti come un Donald Trump o un hacker russo qualsiasi! E vuoi dire che quel database, in mano ai democratici per stessa ammissione di una loro dirigente elettorale, non sia stato usato nel 2016 dal team di Hillary Clinton per qualche campagna mirata o addirittura per una a strascico e di massa, magari sul finire della corsa presidenziale, quando qualche sondaggio avanzava il rischio di un Trump più che competitivo in molti Stati?
Ma c’è dell’altro e ce lo comunica sempre WikiLeaks con quest’altro tweet:
74% of Americans believe in the Deep State (an unelected security complex having undue influence over national policy). 53% are worried about its spying on them. The concern is bipartisan. https://t.co/zlmlKQ7NZX pic.twitter.com/Y1NI7MNxnL
— Julian Assange ? (@JulianAssange) 19 marzo 2018
la maggioranza degli americani interpellati nel sondaggio dell’associazione di Julian Assange non solo crede all’esistenza del Deep State ma è convinto che sia alla guida del Paese proprio ora, di fatto mentre il mondo crede che il timone del Paese sia nelle mani di Donald Trump e delle sue strambe posizioni su politica estera ed economia. Questo sì che è un problema, Houston! Ma attenzione, perché se il Grande Fratello pare in arrivo sul binario della presunta democrazia americana, altrove ha già assunto i gradi di capostazione: in Cina, per l’esattezza. Guardate questi grafici: sapete cosa ci mostrano?
Il sistema di rating sociale cui si è dato vita nel paese del Dragone, un sistema di valutazione dei cittadini attraverso le loro abitudini social che dal 1 maggio prossimo porterà con sé conseguenze dirette nella loro vita di tutti i giorni, stando alla volontà del presidente ormai a vita, Xi Jinping (il quale ha fatto suo il motto, «Colpevole una volta, bandito a vita»): se infatti il punteggio raggiunto in base al numero di infrazioni del codice della strada, alla fedeltà fiscale, all’uso della carta di credito, all’interattività con altri utenti Internet o alla quantità di attività di volontariato compiuto non raggiungerà una certa soglia, il cittadino-utente potrà essere bandito dall’utilizzo di treni e aerei. Insomma, quarantena sociale in base a comportamenti che vengono tracciati attraverso dati sensibili, come appunto l’utilizzo del web o dei pagamenti elettronici o dell’anagrafe tributaria. La Ddr in confronto era una comune di hippies e Honecker una sorta di Sai Baba! E non è fantascienza, è la realtà della Cina nell’anno 2018!
Vi rendete conto a cosa siamo arrivati? E dove andremo a finire, di questo passo? Poi parlano di fake news e notizie bufala, qui siamo al controllo sociale assoluto: pensate che la Cina, visto il suo profilo ontologicamente autoritario dal punto di vista politico, resterà un unicum in tal senso? Scusate, ma quanto successo in America e in Gran Bretagna con Facebook cosa sarebbe se non il prodromo a bassa intensità della deriva da “Grande fratello” del Dragone? Davvero pensate che il problema sia il mero uso elettorale di quei dati e non il fatto che, un domani ormai prossimo, quelle informazioni più o meno inconsapevolmente fornite a entità terze di cui non si conoscono reali statuti e finalità potranno potenzialmente spalancarci le porte della clausura sociale, della quarantena umana e, magari, anche della galera, nei casi più estremi?
E attenzione, perché una forza politica che dietro di sé ha una società (privata) che si occupa esattamente di queste cose, noi siamo in procinto di mandarla al governo di questo Paese. E perché serve tutto questo? Per mero controllo sociale? Può essere, ma quest’ultimo se rende necessario quando c’è il fondato timore che i cittadini possano rivoltarsi contro lo status quo, quindi andare oltre il mero esercizio elettorale di voto cosiddetto “populista” e travalicare verso la disobbedienza civile più o meno pacifica. E cosa potrebbe portare l’America a questa condizione? Anzi, cos’ha già portato l’America verso questa condizione, tanto da dover ricorrere a fenomeni di maccartismo di massa come il Russiagate o a strumenti di controllo sociale diretto e di stampo sanitario come il dilagare dell’uso di farmaci oppiodi, vero tranquillante di massa che sta portando a tassi di decessi per overdose e suicidi degni di un Paese del Terzo Mondo?
Questo, puro e semplice: il debito che oramai non è più soltanto una costante della società americana ma che si sta tramutando, giorno dopo giorno, ora dopo ora, nelle sabbie mobili che sta per trascinarla sul fondo limaccioso del default sovrano, cui si accompagna un’ipotesi sempre più probabile di seconda, devastante crisi finanziaria in meno di dieci anni. Venerdì scorso, il debito pubblico Usa ha toccato per la prima volta i 21 triliardi di dollari, una cifra superiore all’intera economia statunitense. Ma a far paura deve essere altro, ovvero la velocità con cui quel debito sta crescendo: soltanto fra giovedì e venerdì della scorsa settimana, è salito di 73 miliardi di dollari. In un solo giorno! Tanto per capirci e mettere le cose in prospettiva, quella cifra è superiore al valore di alcune primarie aziende Usa come General Motors, Ford o Southwest Airlines. Soltanto nel mese di febbraio, il debito nazionale è cresciuto di qualcosa come 215 miliardi, più del Pil di Nuova Zelanda e Grecia. E negli ultimi sei mesi? Un triliardo in più.
E l’economia Usa, invece, quella che ci dipingono come in forma smagliante? In termini reali lo scorso anno è cresciuta del 2,5%, escludendo l’inflazione. Se invece includiamo questa voce, siamo al 4,4%: peccato che nel medesimo periodo, il debito si cresciuto del 6%. Cosa significa questo, percentualmente? Che anche includendo l’inflazione, per quanto bassa, il debito statunitense sta crescendo più velocemente del 36% rispetto all’economia. Insomma, alla fine del 2008, quest’ultima aveva un controvalore di 14,5 triliardi di dollari, mentre dieci anni dopo era a 19,7 triliardi, più 36%. E il debito? Nel medesimo arco temporale è passato da 9,4 triliardi agli attuali 21, un bel +123% di aumento!
Reazione della gente a questa deriva da Titanic? Nulla. In piazza vanno solo i prezzolati a contestare il razzismo di Donald Trump o a chiedere la rimozione di tutte le statue risalenti al periodo confederale, a nessuno pare interessare il fatto che – Democratici o Repubblicani, poco cambia – l’America ormai viva unicamente grazie al debito, sia a livello statale che privato, se così vogliamo chiamare la Wall Street che macina utili solo grazie ai tassi della Fed o le corporations, come quelle automobilistiche, vivono grazie al credito al consumo e agli incentivi federali. Perché? In parte – ed è una parte sostanziale – perché media tradizionali e social media come Facebook martellano la cosiddetta “opinione pubblica” con campagne ad hoc dedicate a false priorità e false emergenze, tramutando Vladimir Putin nella preoccupazione principale di una famiglia monoreddito del Wyoming, la quale probabilmente non sa nemmeno dove si trovi esattamente la Crimea, ma è conscia che attraverso il Russiagate Mosca abbia manipolato il suo destino.
Un destino che per molti, sempre di più, è fatto di precarietà, sussidi alimentari, salario minimo, occupazione da disperazione over-50 a fare da traino dei dati che vengono spacciati al mondo come da record, partecipazione alla forza lavoro ai minimi, impiego nella manifattura sempre in calo e aumento a dismisura di posti di lavoro senza tutele, soprattutto nella ristorazione, chiusura di massa dei punti vendita anche di grandi marche e calo costante delle vendite al dettaglio, il tutto al netto di un Pil che si basa al 70% sui consumi e di un debito che sale come mercurio in un termometro a ferragosto. Ma si sa, se Facebook ti dice che il problema è Putin o Erdogan che arresta giudici e giornalisti o lo scandalo sessuale di Weinstein o l’estinzione di qualche specie rarissima di organismo monocellulare del Borneo, tu cosa fai? L’asociale che si preoccupa del debito e di Wall Street che, alla faccia tu, macina bonus e dividendi?
Cosa vi dico, da mesi? Siamo dentro Matrix signori. E non è un’esagerazione. Attenzione a quando ci sveglieremo dall’incubo: perché rischiamo di renderci conto brutalmente che non è tale, ma la realtà che abbiamo lasciato ci imponessero. Ben peggiore dei mostri da videogame evocati da Giulio Tremonti per spiegare le crisi ormai non più cicliche ma strutturali dei mercati: qui ne va della stessa libertà personale e morale della gente e dei popoli ammansiti come buoi, siamo alla galera senza sbarre della Rete. Siamo a un passo dal panopticon globale, come ci mostra questo ultimo grafico, il quale ci parla della silenziosa e inesorabile sparizione di ogni forma di dissenso politico in Cina negli ultimi dieci anni.
Qualcuno ha protestato? E chi protesta contro chi garantisce l’impulso creditizio che evita ai mercati globali di crollare e, soprattutto, compra e detiene quel debito Usa che cresce a dismisura e che sta obbligando il Treasury a emissioni senza fine? Attenti, però: dal panopticon globale non si torna indietro. Se non con il sangue per le strade.