Anche in questa settimana la borsa valori è stata altalenante, comunque negativa per gli istituti di credito italiani: le flessioni dei corsi azionari testimoniano nervosismo e una rarefazione della fiducia sul sistema Italia e sulle sue banche. La colpa è dei crediti deteriorati, che affossano i bilanci delle banche e impediscono l’erogazione del credito, questo il mantra ricorrente. Anche la definizione con Bruxelles martedì sera, delle linee generali per creazione di una bad bank per liberare le banche dal fardello dei crediti non ha rasserenato l’orizzonte. L’Italia non convince, e qui, emerge il secondo mantra: l’Europa impone regole troppo stringenti. Anzi, da quando il nostro Presidente del Consiglio è uscito dal ruolo di scolaro diligente e remissivo e ha chiesto il diritto di parola è iniziata una continua e sistemica chiusura da parte degli euro-burocrati, quasi tutti nordici, conoscitori dei regolamenti e dei cavilli giuridici, pronti ad applicarli contro l’Italia.
E così sono suonate le trombe: non riusciamo a gestire l’immigrazione, il debito pubblico è fuori dai parametri, la crescita è dello zero virgola, la flessibilità non è concessa, non sono stati fatti i tagli alla spesa pubblica e, infine, il sistema bancario fa acqua. Insomma, va tutto male in Italia e gli alunni devono tornare a fare gli alunni e non i professori. Ci dobbiamo chiedere se la verità sia effettivamente quella rappresentata o se invece vi sia un anche una realtà non chiaramente percepita. Analizziamo, ad esempio, l’argomento bad bank e i crediti deteriorati presenti nei bilanci delle banche italiane.
Ora, la voce contabile crediti verso clienti è una componente dell’attivo bancario; a fronte di questo attivo – remunerato con un tasso di interesse commisurato al rischio implicito del cliente – qualora il credito diventi deteriorato, cioè emergano delle difficoltà alla sua restituzione da parte del cliente, la banca provvede ad accantonare al passivo, al fondo rischi, una somma in percentuale del credito, al fine di adeguare il suo valore al presunto realizzo. Il rischio ha due componenti: una è endogena, l’incapacità dell’imprenditore o la sua inadeguatezza a ricoprire il ruolo, e una esogena, che riflette la congiuntura internazionale o eventi esterni, che colpiscono l’intera economia o il settore di appartenenza dell’impresa e ne condizionano negativamente la sua economicità e la sua stessa sopravvivenza.
Un dato deve essere evidenziato. Il settore merceologico con la più alta concentrazione di sofferenze è il comparto costruzioni-real estate e tutta la filiera delle imprese fornitrici, ad esempio infissi e serramenti, impiantistica elettrica, idraulica, termo-sanitaria, piastrelle, marmo, ecc. Seguono altri settori, distribuzione no-food, elettrodomestici, arredo casa, cucine componibili, con una correlazione diretta con il settore costruzioni.
Certo lo shake-out competitivo è stato profondo in ogni settore della nostra piccola e media industria: alcune aziende si sono rafforzate e sono diventate leader di nicchia, ma molte hanno chiuso o sono state assorbite dai competitors, molte volte stranieri, che hanno preso quote di mercato, chiudendo poi gli stabilimenti e licenziando le maestranze. Queste imprese non sono riuscite a ristrutturarsi, lo shock della crisi è stato improvviso e ha evidenziato un male già presente nel nostro sistema industriale: con l’entrata nell’euro della lira a un cambio certamente non favorevole e sopravalutato, abbiamo perso competitività. Se da un lato ci siamo illusi di avere più ricchezza, dall’altro non abbiamo intuito fin da subito che abbiamo condannato la nostra industria ad avere costi di produzione non più competitivi rispetto ai nostri partener europei, in particolare la Germania, determinando un lento ma inesorabile crollo delle quote di mercato della nostra industria, sia nel mercato domestico che in quello internazionale. Si è anche affermato con miopia, che conveniva delocalizzare e chiudere stabilimenti, alimentando quel circolo vizioso di disoccupazione, caduta dei consumi, fallimenti ed emersione di crediti deteriorati. Eccoci quindi ai giorni nostri.
Ora, i crediti deteriorati delle nostre imprese fallite o decotte, avevano come garanzia i loro attivi, prevalentemente immobiliari, quasi sempre capannoni e opifici, oggi corpi spettrali nelle zone industriali della provincia italiana. Vorrei qui informare il lettore che non è vero che il nostro sistema bancario non sapeva fare il suo mestiere, le garanzie – nella prevalenza dei casi – le ha sempre avute, ed erano immobili, coerentemente con la mentalità italiana, della grande affezione al mattone. Il problema emerso in seguito e oggi ben presente è stata la mancanza della domanda, sia di nuovi o vecchi imprenditori, desiderosi di acquistare capannoni industriali o aziende per risanarle, sia di cittadini desiderosi di acquistare un immobile, la casa, per andarci a vivere o semplicemente per i figli, o per affittare e assicurarsi una rendita integrativa della futura pensione. La scomparsa della domanda – questo convitato di pietra – ha via via depresso i valori immobiliari -anche nelle aste giudiziarie e fallimentari – dei beni a garanzia, amplificando le perdite sui crediti deteriorati che, pertanto, sono lievitati.
Liberare il nostro sistema bancario dai crediti deteriorati e dalle correlate garanzie immobiliari non risolve il problema di fondo. Se è vero che le banche, smobilizzando questi crediti, ottengono liquidità e la possono impiegare nell’erogare nuovo credito alle imprese e alle famiglie, dobbiamo essere consapevoli che la richiesta di credito – in questo momento – è soddisfatta. E ancora: avere comunque capacità di erogazione non vuol dire commettere gli stessi errori del passato. Il credito deve essere erogato ad aziende sane e progettuali, a imprenditori innovativi e managerialmente preparati ad affrontare mercati globali complessi, e in questo momento, le nostre banche lo stanno facendo. Non certamente si può pensare di orientare o condizionare l’erogazione del credito per finanziare aziende decotte o settori – come quello delle costruzioni abitative – quando la domanda è assente e perdurerà nel prossimo futuro. Questo semplicemente per l’evoluzione demografica in atto: non nascono figli e quindi le unità immobiliari esistenti sono più che sufficienti nel prossimo futuro.
È pura retorica pensare di rivivere il boom degli anni Sessanta del secolo scorso. Infatti, gli occupati nel 1960 erano 20.392.000 a fronte di una popolazione di 50.025.000 persone. Nel 2010 gli occupati erano aumentati del 12% a 22.872.000 contro un aumento della popolazione del 21%. Tale differenza di popolazione è sempre più concentrata nella fascia di persone over 65 anni, si tratta cioè di persone che consumano risorse senza produrre ricchezza, e non hanno bisogno di nuovi alloggi, sono già proprietari, e li lasceranno in eredità all’unico probabile nipote. Ma d’altra parte, se il futuro si costruisce sulle nuove generazioni, sulla loro progettualità e sulle loro idee, meno giovani significa meno entusiasmo, meno creatività, meno imprese. Se poi i nostri attuali imprenditori, perdono la fiducia e non investono, cullandosi nella rendita, ci aspetta solo un inesorabile declino. Ecco il vero problema.