Bisogna distinguere le battute – che possono essere anche infelici – dalle questioni serie: e il ruolo del Parlamento e la sua riforma sono per il nostro assetto costituzionale questioni indubbiamente serie.
Partiamo da un dato difficilmente contestabile. È invalsa anche nel nostro Paese la tendenza verso una “democrazia d’investitura”. Non è questa una definizione di cui avere paura o vergogna, come sostiene adesso qualche autorevole commentatore. È una forma di democrazia in cui una leadership dotata di carisma politico, appoggiata da una solida maggioranza, conquista alle elezioni il consenso del corpo elettorale. Si è andati anche in Italia in questa direzione, complici le trasformazioni della legge elettorale succedutesi dal 1993 e grazie all’affacciarsi sulla scena di personalità politicamente forti.
Il Governo e il presidente del Consiglio non sono eletti direttamente, beninteso, perché siamo sempre in una democrazia parlamentare, ed anzi il Governo per regola costituzionale si regge solo sulla fiducia del Parlamento. Ma è chiaro che, anche nella percezione comune, le elezioni sono diventate il momento in cui si sceglie un presidente del Consiglio e una compagine governativa. L’elezione del Parlamento e la connessa scelta dei rappresentanti – questo sono le elezioni politiche – è come se stessero sullo sfondo, quasi in secondo piano. Per parte sua, la legge elettorale varata nel 2005, con le sue lunghe liste bloccate, zeppe di personaggi sostanzialmente cooptati o “nominati” dall’alto, non ha certo aiutato a innalzare l’autorevolezza dei parlamentari, e di conseguenza non ha giovato all’immagine dell’organo.
E tuttavia, nel sistema vigente, il Parlamento continua ad essere ovviamente investito del fondamentale ruolo di legislatore, nonché di controllore dell’esecutivo. Il Governo deve ottenere dal Parlamento l’approvazione dei propri disegni di legge, e spesso lamenta di non avere strumenti per ottenere in Parlamento risposte rapide, né corsie preferenziali per far votare in tempi certi le misure che ritiene essenziali. Così, ricorre a strumenti pensati per altri obbiettivi, come il decreto-legge o la questione di fiducia, che deprimono fortemente la capacità di discussione delle assemblee. Vi è spesso contrasto insanabile fra le esigenze di celerità del Governo e l’esigenza di approfondire e discutere, propria del Parlamento. Crisi d’identità e senso di frustrazione serpeggiano tra i parlamentari, costretti a alla pratica del “votificio” più o meno coatto.
Eppure, noi continuiamo a guardare al Parlamento con speranza, talvolta addirittura invocando il suo intervento. Pensiamo al caso Englaro: nonostante quel che si vuol far credere, la soluzione per via giudiziaria di gravi questioni come quella di Eluana non è percepita dall’opinione pubblica come legittima, e si esige che sia il Parlamento, rappresentante del corpo elettorale, a intervenire con una legge che orienti le scelte dei giudici e dei cittadini.
Va trovato un equilibrio, certo non facile, tra l’esigenza dell’esecutivo di decidere e le esigenze del Parlamento di discutere, approfondire, controllare e dare alle decisioni la necessaria legittimazione democratica. In questo quadro vanno affrontate le questioni del numero eccessivo dei parlamentari, del bicameralismo perfetto, oggi inutile, e del procedimento di approvazione delle leggi, attualmente lento e barocco.
Non posso affrontarle tutte in questa sede: mi limito a dire che la riduzione del numero dei parlamentari sarebbe indiscutibilmente utile anche e soprattutto per elevare l’autorevolezza loro e dell’organo. Non è facile, certo, “chiedere ai capponi di anticipare il Natale”, ma non è impossibile, come dimostra la soluzione già contenuta nella riforma costituzionale approvata dal Parlamento nel 2005 e poi bocciata al referendum popolare del 2006.