Le cronache (di qualche lustro orsono) dicono che nel teatrino della Parrocchia di Pontassieve l’attuale Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, abbia partecipato (allora era poco più di un bambino) a un paio di recite della commedia musicale di Garinei e Giovannini “Aggiungi un posto a tavola” in cui si narrava di un nuovo diluvio universale in un paesetto dei nostri tempi; quindi, anche individui abbastanza incompatibili tra di loro o con vecchie ruggini chiedevano al parroco (neo- Noé) che venisse aggiunto un posto, pure per loro, sull’Arca.
La riunione con la Cancelliera tedesca Angela Merkel era stata preparata, con diligenza, dalla Farnesina (pur in armi nei confronti dell’inquilino pro-tempore di Palazzo Chigi per la sostituzione di un noto e apprezzato diplomatico di carriera con un politico conosciuto per il suo dinamismo aggressivo). L’obiettivo da raggiungere era quello di aggiungere un posto al tavolo a cui ora siedono Angela Merkel e François Hollande, un “direttorio informale” che si riunisce, o si parla via Skype, prima dei vertici dei Capi di Stati e di Governo dell’Unione europea, al fine di definire un punto di convergenza, ove non un accordi, sulle questioni di fondo all’ordine del giorno.
A Renzi, Presidente del Consiglio della terza maggiore economia dell’unione monetaria, nonché di uno degli “Stati fondatori” dell’Ue, “rode”- si direbbe un gergo romano – di non fare parte del “direttorio”, e sostanzialmente, di restare fuori la porta quando al tavolo del “direttorio informale” si discute di questioni chiave e si prendono decisioni di grande rilievo. Quindi, tutti mobilitati ad aggiungere un posto.
Gli sforzi – pare – non sono stati commensurati ai risultati ottenuti. Il Corriere della Sera ha titolato i servizi dedicati all’incontro lento disgelo nei rapporti tra Italia e Germania; in effetti, nella storia dell’Ue, mai Roma e Berlino divergono su tanti dossier. Il lento disgelo non ha, naturalmente, portato un posto al tavolo del “direttorio informale”, ma la promessa che “zia Angela” farà una telefonata al “nipotino Matteo” prima dei vertici Ue. Non è detto che nella telefonata gli svelerà quando concluso con Hollande o gli chiederà il parere su questo o quell’argomento all’ordine del giorno.
Ci sono due ordini di ragioni che spiegano perché l’incontro sia terminato così. Alcune appartengono al campo delle relazioni internazionali. Altre sono più prettamente economiche. A livello internazionale (ma anche sul piano interno) di norma non si chiede di essere ammessi a un club ristretto ed esclusivo (specialmente se composto solamente da due soci). La prassi è che si è invitati per cooptazione. Se e quando vogliono, Angela Merkel e François Hollande, se e quando pensano che Matteo Renzi possa dare loro un effettivo contributo, non avranno nessuna difficoltà a invitarlo al tavolo, proprio per il contributo che ritengono possano ottenere sulle difficili questioni europee. In materia di seggi nelle organizzazioni internazionali, purtroppo, l’Italia non ha una buona fama. Applica quella che Stefano Silvestri, a lungo Presidente dell’Istituto affari internazionali chiama la politica del sedere, ossia la politica in base alla quale si chiede un seggio, ma una volta ottenuto non si sa cosa farsene.
Spesso la responsabilità non è di coloro che ottengono l’incarico , e poggiano il loro posteriore sul seggio, ma di direttive tardive, e anche contraddittorie, provenienti da Roma. Non c’è nessun segno che la situazione – elemento di disorientamento dei nostri interlocutori – sia migliorata; al contrario, indicazioni e direttive provenienti dai Ministeri competenti per materia si sommano a spesso estemporanei tweet da Palazzo Chigi. In tale contesto, pochi hanno un genuino interesse ad aprirci le porte di club ristretti ed esclusivi dove si cammina su tappeti felpati, non si fa chiasso e non ci si vanta dei risultati che si pensa di avere ottenuto. O, peggio ancora, si utilizza il seggio per ragioni particolaristiche o di parte (quali le richieste di flessibilità).
A queste ragioni “diplomatiche” si aggiungono quelle economiche. L’Economist intellingence unit ha completato uno studio approfondito sull’Italia (di cui viene riportata una sintesi nel settimanale The Economist in edicola) da cui si ricava che, da un lato, se il Paese esce dalla moneta unica (o viene invitato ad andarsene) l’unione monetaria non potrà sopravvivere, e la stessa Ue sarà ad alto rischio ma, da un altro, se non vengono realizzate profonde riforme economiche (non istituzionali) è destinato a un progressivo impoverimento. In termini reali di parità di potere d’acquisto il Pil procapite è ai livelli del 1999.
Non tutte le previsioni per il futuro sono negative. Un’analisi della Commissione europea conclude che il Pil italiano potrebbe aumentare del 24% (rispetto allo scenario di base tracciato nello studio), ma su un arco di tempo di cinquanta anni; i benefici si comincerebbero a farsi sentire tra venticinque anni, mentre nei primi lustri del riassetto l’imprescindibile aumento della produttività comporterebbe inevitabilmente una contrazione dei salari reali, specialmente nelle regioni e aree meno sviluppate. In queste condizioni, i due documenti concordano, l’Italia ha poco da contribuire e molto da chiedere. Non la posizione migliore per fare parte di un “direttorio”, anche se “informale”.
Il quadro potrebbe migliorare se dall’Italia pervenissero proposte considerate, a torto o a ragione, non “particolaristiche”, come quella di una conferenza inter-governativa sul debito dell’eurozona. Non sembra che questa sia la strada del Presidente del Consiglio.