La “Bibbia” dei fautori dell’austerity smentita da una nuova ricerca. Gli economisti di Harvard, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, sono gli inventori della teoria secondo cui quando il rapporto debito/Pil supera il 90% la crescita economica si azzera. I loro studi sono stati presi a modello da politici come Angela Merkel per sostenere le loro politiche di austerità. Ora però una nuova ricerca, realizzata da Michael Ash, Thomas Herndon e Robert Pollin, dell’Università del Massachussetts, afferma che in realtà quando si supera il 90% del rapporto debito/Pil la crescita si riduce soltanto di un punto.
Professor Campiglio, ci vuole spiegare in che modo Reinhart e Rogoff sono arrivati a dimostrare le loro teorie?
Reinhart e Rogoff sono gli autori di un libro che ha avuto molto successo, in cui hanno raccolto e interpretato 2-3 secoli di dati sulla finanza e il debito pubblico. Hanno svolto un lavoro straordinariamente interessante, cercando di fornire una risposta a un problema che sul piano teorico non è ben definito.
Secondo lei, questo modello è in grado di spiegare la situazione attuale dell’economia?
Da questa ricerca emergono due ordini di problemi. Il primo è che non spiega quanto sta avvenendo in un’economia importante come il Giappone, il cui rapporto debito-Pil va ben oltre il 200%. Abbiamo quindi un Paese in deflazione da quasi 20 anni e dove il primo ministro Shinzo Abe ha lanciato un programma gigantesco di quantitative easing.
Quali saranno le conseguenze?
La principale conseguenza sarà quella di un ulteriore aumento del disavanzo e quindi anche del debito. In tempi anche rapidi, il rapporto debito pubblico/Pil andrà al 250%. Rispetto al 90% di cui parlano Reinhart e Rogoff, il dato giapponese si colloca al di fuori della media di tutti gli altri. In molti si chiedono perché il Giappone sia passato finora indenne con un debito pubblico che sfida la legge di gravità.
Come si può spiegare questo fatto?
L’80% del debito del Sol Levante è detenuto da investitori residenti in Giappone. Questo è da molti indicato come un fattore di grande importanza, perché nei fatti Tokyo non chiede prestiti all’estero, ma può attingere a una riserva di risparmio interno che continua a essere molto elevata. E’ una situazione anomala che non riguarda però un piccolo Paese, ma una delle grandi economie mondiali.
Che cos’altro non torna nella teoria di Reinhart e Rogoff?
Se uno guarda le vicende europee recenti, la distinzione tra debito domestico interno e debito estero non è più così chiara. Nel caso della Grecia, il debito pubblico è denominato in euro. Poiché la Grecia è parte dell’Eurozona, dovremmo considerarlo debito domestico. Sennonché nel caso della Grecia, dove il rapporto debito/Pil è del 152%, il 20% del debito è in mano a residenti greci e l’80% a investitori esteri. Il Giappone, che ha un debito pubblico superiore al 200%, ha una minore vulnerabilità della Grecia.
Che cosa dimostrano le “eccezioni” di Grecia e Giappone?
Il debito è un indicatore aggregato importante, ma da solo non basta a definire il grado di stabilità finanziaria di un Paese. Gli indicatori di vulnerabilità sono più articolati e sofisticati, e quindi può succedere che un Paese che teoricamente ha un rapporto debito/Pil relativamente ridotto, poi per altri fattori risulti molto instabile. Di queste ricerche accademiche, spesso i policy maker scelgono quei risultati che sono più congeniali a impostazioni già stabilite in precedenza. In linea di principio dovrebbe esserci la ricerca accademica che sostiene le decisioni della politica monetaria. A volte accade però il contrario.
E quindi?
Quando si tratta di intervenire su specifici paesi come il Giappone, o su gruppi di Stati come quelli dell’area euro, la questione diventa differente, perché in quel caso la storia di ciascuna nazione conta moltissimo. Ne è un esempio il dibattito sul moltiplicatore fiscale dell’austerità, e a seconda di quanto sia il suo numero vero le politiche di rigore funzionano oppure sono un disastro.
(Pietro Vernizzi)