Ho visto gli economisti austriaci danzare con quelli di Chicago, i keynesiani recalcitrare e i monetaristi annaspare. Tutti gli altri non sanno cosa dire. E già, il “si dice” c’è. Sono state pubblicate indiscrezioni stampa secondo cui Donald Trump sembri preferire l’economista di Stanford John Taylor, ex sottosegretario al Tesoro degli Stati Uniti sotto George Bush padre, per il posto di presidente della Federal Reserve.
Taylor, 70 anni, è noto per la regola di politica monetaria da lui formulata: la Regola di Taylor. Si tratta di un’esamina per determinare il livello più corretto possibile dei tassi di interesse. Nello specifico la regola, enunciata dal professore di Stanford, sta in una formula matematica che mette a confronto il costo del denaro nominale di breve periodo imposto dalla banca centrale e quello dell’economia reale.
L’obiettivo sta nel far sì che il tasso di interesse, determinato dalle autorità monetarie, risulti pari al tasso di interesse reale di equilibrio. Quel tasso reale a cui corrisponde un livello di domanda aggregata pari all’offerta aggregata, in un contesto di piena occupazione, per poter realizzare il Pil potenziale e azzerare l’output gap. Dunque, senza farla troppo lunga, se toccasse rivedere quelle politiche monetarie, che fin qui hanno alterato il meccanismo di formazione dei prezzi, va bene. Benissimo!
Con questi modi Taylor troverà pure il modo di centrare il tasso di equilibrio? Beh, che questo delicato equilibrio domanda/offerta aggregata si debba trovare, ok. Se si spera che questo lo si possa ottenere con la piena occupazione nel tempo dell’automazione, del 4 punto 0, del part-time, della condizione precaria si va knock out. Sì, nell’economia dei consumi, dove il Pil si fa con la spesa, non si trova con l’occupazione il punto d’equilibrio; nel reddito invece, speso per acquistare quanto prodotto e far nuovamente produrre, sì. Sta proprio qua la possibilità di azzerare l’output gap.
Ehi Trump, attento agli abbagli.