TASSE E REFERENDUM VENETO E LOMBARDIA. Indipendentemente dalle sollecitazioni particolari, l’autonomia fiscale di Regioni e Comuni dovrebbe essere valutata come strumento di sviluppo economico e competitività globale dell’intera nazione. Il punto è capire quale sia il miglior traino per l’economia italiana. Il modello attuale, semplificando, concentra tutte le risorse fiscali nelle casse dello Stato centrale e questo poi le redistribuisce agli enti locali. In tale schema le aree industrialmente forti e più esposte alla concorrenza internazionale tendono a dare di più allo Stato di quanto poi ricevano. Pertanto, le risorse che servirebbero a qualificare e modernizzare continuamente le zone forti dell’Italia vengono per lo più allocate sia per compensare il gap di risorse delle aree meno ricche, sia per interventi statali gestiti centralmente. Il risultato è che le locomotive economiche della nazione non hanno a disposizione carburante sufficiente per correre a pieni giri nonché trainare il convoglio.
Gli analisti specializzati, poi, fanno notare che la concorrenza globale tende a essere più tra città e aree metropolitane che non tra Stati. Ciò renderebbe razionale permettere ai luoghi d’Italia di usare più risorse per la loro qualificazione competitiva mentre ora questa è impedita. Ciò spiega perché tutte le regioni del Nord industriale abbiano avviato trattative con il governo per ottenere una maggiore autonomia che è un precursore di quella fiscale.
L’opinione di chi scrive è che l’Italia, oltre a cercare di ridurre le tasse in generale, debba passare a un modello di “crescita asimmetrica” che lasci più risorse alle aree forti con lo scopo di trainare lo sviluppo di quelle più deboli senza venir meno agli obblighi di solidarietà fiscale nazionale. Fattibile? Immaginiamo una cartella delle tasse divisa in quattro sezioni: prima, soldi per le funzioni dello Stato; seconda, per le funzioni regionali; terza, per quelle del Comune; quarta, per il fondo di solidarietà fiscale nazionale, cioè per quelle aree il cui gettito non copre il fabbisogno. E immaginiamo che l’autonomia locale possa usare più soldi per investimenti pubblici nel proprio territorio o ridurre le tasse locali, entro limiti di concorrenza fiscale concordata. L’ipotesi è che tale nuovo modello possa portare molti più denari fiscali al servizio di investimenti per lo sviluppo, competitività e occupazione di quanto faccia quello corrente, senza peraltro togliere risorse ai luoghi meno ricchi.
La questione merita un approfondimento tecnico, via sperimentazione, e non solo valutazioni politiche/ideologiche.