Anche in diplomazia ci sono cose che possiamo controllare e altre che escono dal nostro controllo. Nel caso dei Marò detenuti in India con l’accusa di aver ucciso due pescatori, molte cose potevano essere nel controllo della catena di comando italiana quel giorno di un anno e mezzo fa in cui alla nave mercantile Lexie venne chiesto di attraccare in rada per un contatto ordinario, salvo poi scoprire che la polizia del Kerala era già pronta a mettere le manette ai fucilieri Latorre e Girone.
Tanti errori potevano essere evitati, da parte di chi il naviglio lo possedeva, di chi lo guidava e delle autorità italiane che hanno sempre e comunque l’ultima parola quando a bordo ci sono nostri uomini in divisa.
Da quel giorno sono iniziate cose che noi non possiamo (o possiamo solo in parte) controllare. Comprese le notizie di queste ore che rimbalzano da Nuova Delhi e secondo cui i nostri Marò rischierebbero la pena di morte al processo, eventualità categoricamente esclusa dal governo indiano. In effetti, la vicenda dei nostri militari si incrocia con dinamiche tutte interne all’India. Un governo locale, quello del Kerala, cerca una sua visibilità politica anche nei confronti dell’esecutivo centrale. I partiti politici cavalcano l’onda emotiva per solleticare la pancia degli elettori. Le corti e i tribunali locali affermano la loro autonomia di giurisdizione. Addirittura le singole forze di polizia e di sicurezza locali e federali si combattono la potestà delle indagini, in una rincorsa di zelo che ormai rende gli imputati una comparsa sulla scena di questa vicenda.
In un contesto così frammentato e incerto, la diplomazia italiana ha fatto e sta facendo tutto il possibile e tutto ciò che rimane nel nostro controllo. Ormai è chiaro anche all’India (o meglio, al suo governo centrale) che la crisi si sta prolungando troppo e che rischia di tracimare rispetto agli argini della rappresentazione delle proprie ragioni.
I tecnici e gli esperti sanno che alcuni obiettivi sono già stati messi in sicurezza dall’Italia: ad esempio che i nostri fucilieri hanno lasciato da tempo il carcere o che avranno diritto ad un giusto processo, nel quale le prove potranno anche scagionarli del tutto. O, ancora, che in nessun modo verrà loro imputata l’accusa di terrorismo, prevista per i reati più gravi e che contempla anche la pena di morte. Uscire fuori da questo recinto già tracciato significa riportare caos tra le Cancellerie. Ipotizzare nuovamente la pena di morte significa fare molti passi indietro. Anche per il governo indiano, che deve guardarsi dalle insidie interne, pericolose perché in questo modo minano la reputazione della più grande democrazia del mondo.