Le donne in Afghanistan non hanno nome. Sono sorelle, madri, mogli e figlie, ma non hanno diritto all’identità primaria. Per indicarle si usano pseudonimi, e nemmeno affettuosi: “la mia capretta”, “la mia parte debole” o il classico “la madre dei miei figli”. Non c’è modo di nominarle, neppure sulle lapidi, ai matrimoni o sulle prescrizioni mediche. In alcune zone il loro nome non è indicato neppure sul certificato di nascita. Vengono indicate come “moglie di…” o “madre di…”. Le ragioni di questa tradizione sono da ricercare nella cultura tribale di secoli fa: i sociologi spiegano che la società afghana è ultraconservatrice e quindi un uomo può arrivare a vergognarsi nel chiamare per nome la moglie. La religione in questo caso non c’entra nulla: nel Corano non è scritto che le donne non devono essere chiamate per nome. «Nella logica tribale è importante chi possiede il corpo, la faccia e il nome della donna», ha spiegato il sociologo Hassan Rizayee al New York Times. L’eccezione è rappresentata dalle donne che hanno ruoli importanti. Le donne non restano anonime se lavorano in Parlamento: in questi casi hanno un nome con il quale poter essere chiamate.
DONNE ANONIME E INVISIBILI: COMINCIA LA LORO BATTAGLIA
Allora è facile comprendere le ragioni dello sconcerto generale che provocò il presidente Ashraf Ghani, quando tre anni fa nominò la moglie durante il suo discorso di insediamento. Così come è comprensibile la campagna che sta prendendo piede: si chiama #WhereIsMyName e reclama il diritto all’identità delle donne afghane. La campagna è partita a Herat, poi ha conquistato pian piano terreno. Del resto non può avere successo se le donne stesse non sono pronte a combattere per infrangere questo tabù. Ora artisti, deputati e membri del governo si sono schierati a favore. Ma ci sono anche voci contrarie e particolarmente critiche: alcuni hanno accusato le organizzatrici della campagna di voler occidentalizzare le donne afghane. «Il nome di mia madre, mia sorella o mia moglie sono sacri come il loro velo. È un segno del loro onore», ha spiegato Modaser Islami, che dirige un’organizzazione giovanile, al New York Times.