Nelle reazioni negative di vari Stati, fra i quali il nostro Paese, alla decisione statunitense di trasferire la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, è frequente il riferimento al diritto internazionale. Ciò significa che tale decisione non ha solo un significato politico, ma anche un evidente significato giuridico.
Politicamente la decisione di trasferire l’ambasciata implica il riconoscimento della città di Gerusalemme, inclusa la parte est, come capitale dello Stato israeliano e dell’annessione della città. Essa, quindi, non facilita la soluzione della controversia fra Israele e i palestinesi ma anzi inasprisce notevolmente il conflitto, come dimostrato dagli scontri di questi giorni. Oltre tutto, tale riconoscimento pregiudica la posizione di neutralità — per la verità in larga parte apparente — assunta dagli Stati Uniti negli ultimi decenni, e rischia quindi di pregiudicare la posizione dell’unico ente accettato come mediatore da ambedue le parti in conflitto.
Ma anche il significato giuridico di tale decisione è interessante. Il diritto internazionale, innanzitutto, qualifica come illecite le annessioni di territori occupati militarmente e in violazione del principio di autodeterminazione. Esso inoltre pone anche obblighi aggiuntivi a tutti gli altri Stati della comunità internazionale. Uno di questi obblighi è proprio quello di non riconoscere come definitive tali acquisizioni territoriali e, anzi, di cooperare al fine di farle cessare e di ripristinare la legalità internazionale.
Da questo punto di vista, le reazioni alla decisione statunitense di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme sono davvero molto interessanti. Gli Stati Uniti, infatti, non hanno occupato militarmente Gerusalemme; né essi hanno violato il principio di autodeterminazione. Essi stanno semplicemente prendendo atto della decisione israeliana di annettere l’intera città di Gerusalemme e di farne la propria capitale, sebbene tale acquisizione violi il divieto di uso della forza e il diritto di autodeterminazione dei palestinesi.
E tuttavia, secondo gli Stati che hanno reagito nei confronti della decisione statunitense, anche questo riconoscimento da parte degli Stati Uniti costituisce una violazione del diritto internazionale. Contro la quale qualsiasi Stato, anche quelli lontani migliaia di chilometri dall’area mediorientale, può reagire invocando il diritto internazionale.
Le reazioni alla decisione dell’amministrazione Trump, quindi, sono incoraggianti proprio perché evidenziano come gli Stati che stanno protestando non si curano solo dei propri interessi — magari quello di mantenere buone relazioni con la superpotenza statunitense — ma anzi le stanno mettendo a repentaglio al fine di promuovere il rispetto per i diritti fondamentali dei popoli, senza il quale è difficile creare condizioni di pace e di stabilità.