La recente chiusura dell’Ambasciata irlandese presso il Vaticano è stata fatta passare dal governo irlandese come una decisione dettata da questioni finanziarie. Perfino critici inveterati della Chiesa cattolica hanno commentato negativamente questa decisione per la sua miopia, senza peraltro rinunciare a dichiararsi soddisfatti per i cambiamenti nella società che hanno portato ad essa. Tutti sanno, infatti, che si è in realtà voluto mandare un ulteriore segnale di disapprovazione al Vaticano nell’ambito dello scontro causato dal rapporto, commissionato dal governo, sugli abusi di minori da parte di alcuni preti e dal recente discorso in cui il Primo Ministro irlandese ha attaccato pesantemente il Vaticano. (In questo discorso, il premier ha anche criticato ingiustamente Benedetto XVI, travisando fortemente la posizione del Papa sul rapporto tra religione e società).
Vi è un generale consenso sul fatto che la chiusura dell’Ambasciata non danneggerà tanto il Vaticano quanto l’Irlanda, allontanandola da una fonte importante di informazione e di sostegno diplomatico su scala globale. Tuttavia, sui media e nella società vi sono ancora molti che accolgono con favore il nuovo atteggiamento politico che questa decisione porta con sè. Il premier, Enda Kenny, si dichiara un cattolico praticante, ma non disdegna gesti populisti, né è un segreto che molti dei suoi ministri, più d’uno nel Labour Party, sono atei, in alcuni casi militanti, che vogliono eliminare nella vita e nella cultura irlandese il ruolo centrale del cattolicesimo. Uno di questi è il vice primo ministro Eamon Gilmore, al quale è toccato annunciare, come responsabile degli affari esteri, la chiusura dell’ambasciata, compito che ha eseguito con compiacimento eccessivo, se non addirittura esplicito piacere. Alcuni suoi compagni di governo si sono trattenuti ancor meno e hanno definito la chiusura dell’ambasciata l’inizio di una nuova era nella vita pubblica irlandese.
La decisone della chiusura è stata vista da molti cattolici irlandesi (ancora decisamente la maggioranza della popolazione, almeno numericamente) come un’ulteriore prova che oggi l’Irlanda è governata dall’amministrazione più fanaticamente antireligiosa della sua storia. Dopo il discorso di luglio del Primo Ministro, e le distorte citazioni del Papa a sostegno della denuncia di presunti tentativi del Vaticano di impedire le inchieste sugli abusi sessuali, gli eventi successivi sono considerati la prova che Enda Kenny e i suoi ministri sono decisi a ricorrere alle più basse forme di populismo pur di avere il favore dei media in un momento in cui hanno ben poche altre occasioni per poterlo ottenere.
Enda Kenny e il suo governo hanno dimostrato di non rendersi minimamente conto del processo distruttivo cui hanno dato inizio. Allo stesso modo, la corrente di pensiero che sta invadendo la società irlandese non sembra essere cosciente di ciò che si rischia di perdere per il suo costante tentativo di eliminare il cattolicesimo dalla nostra cultura. Forse, in parte ciò deriva dal fatto che la maggioranza di chi scrive o commenta sulla religione è composta da non credenti. O, forse, ha a che fare con la riduzione della ragione in Irlanda, come altrove, a quel positivismo che il Papa ha recentemente criticato nel suo discorso al Bundestag.
In ogni caso, quella che potrebbe essere definita la mentalità corrente nella società irlandese, indotta dai media e da sentimenti popolari, sembra ritenere che ciò che sta succedendo possa avere conseguenze solo per “la Chiesa”. Secondo questa discutibile analisi, la distruzione del cattolicesimo irlandese è una opportuna “vendetta” su un cattolicesimo oppressivo e, nel peggiore dei casi, può avere solo risultati neutri, ma più probabilmente effetti benefici per la società. Questi presunti “benefici” sono poco delineati e descritti, ma sarebbero collegati soprattutto a una sensazione di libertà: la rimozione del “giogo” della morale cattolica e l’entrata in una nuova “maturità” e “apertura” che ci renderanno più liberi, meno inibiti e, quindi, più felici.
Applicando anche solo un’intelligenza elementare, si capisce quanto tutto questo sia illusorio. La natura e la struttura della società irlandese dipendono dall’eredità cattolica per molte delle sue risorse e delle sue posizioni più vitali. Anche lasciando da parte l’elemento della fede, nella società irlandese il cattolicesimo ha rappresentato la fonte della maggior parte dei suoi valori e delle sue concezioni di fondo e può essere abbandonato senza danni solo se questa complessa struttura di elementi tra loro connessi viene protetta o, se smantellata, viene sostituita da qualcosa d’altro che possa funzionare altrettanto bene.
È però preoccupante che coloro che chiedono la rimozione del cattolicesimo diano per scontato che nella cultura irlandese tutto continuerà come adesso, sulla scia del loro anticipato “successo”, avendo posto sotto il loro laico controllo tutti i benefici che tuttora da questa eredità provengono. Non sembra che sia loro venuto in mente che molti dei fattori della cultura pubblica irlandese, compresi etica, moralità, speranza, significato, ma di certo non solo questi, non potranno sopravvivere senza il sostegno dei loro fondamenti cristiani e cattolici.
Ciò che viene chiamato laicismo in Irlanda è una rabbiosa reazione nevrotica a un particolare tipo di cattolicesimo, che, benché più triste e moralistico che altrove, rimane storicamente la fonte dei valori più fondamentali del popolo irlandese. Di conseguenza, i laicisti irlandesi tendono a credere che quanto loro danno per scontato si realizzerà comunque e che, poiché Dio è solo un residuato superstizioso di un vecchio e inutile modo di pensare, secondo il laicista e ateo vice Primo Ministro Gilmore, in sua assenza la realtà sarà ancora migliore. Il problema è che la realtà irlandese, in pratica, concettualmente e in modi anche nascosti, si è formata attorno all’idea di Dio. Togliendo il centro, il tutto non riuscirà più a tenersi insieme.
Così, lo smantellamento dell’eredità cattolica dell’’Irlanda è molto più pericoloso di un semplice insulto ai cattolici. È vandalismo culturale e spirituale della specie più ignorante e sconsiderata.