In molti scrivono che Gheddafi, durante gli ultimi giorni di vita, abbia più volte sentenziato “senza di me la Libia sarà peggio della Somalia”, oppure, “dopo di me il caos”. Oggi, quelle che sembravano le minacce dell’ultima ora di un tiranno alla fine della sua dorata dittatura rischiano di divenire una profezia che si avvera.
La Libia è nel caos: è questo, oggi, il quadro a tinte fosche di un paese in bilico tra una difficile ricerca di democrazia e il baratro dell’anarchia.
E’ vero che Gheddafi più di un anno fa ha lasciato in eredità uno “scatolone di sabbia” senza istituzioni, senza una società civile unitaria, senza un sistema economico strutturato ed è anche vero che nessuno ha mai messo in dubbio la grande difficoltà insita nel dover costruire da zero uno Stato, ma è altrettanto vero che la situazione del paese, in questo momento, appare quantomeno preoccupante.
Anche se naturalmente le speranze di tutti sono riposte nei nuovi leader che stanno a fatica traghettando il paese sulla strada della transizione, con un po’ di necessario realismo, e a ben guardare il puzzle libico, sono molti gli elementi che potrebbero farci propendere più per l’ipotesi dell’ingovernabilità che per quella, ben più rosea, della stabilità.
In primo luogo va menzionata l’evidente mancanza di un sistema istituzionale funzionante ed efficace. Il governo del nuovo primo ministro Ali Zeidan, nominato nell’ottobre scorso dal neoeletto parlamento, non si è fin qui dimostrato capace di garantire il processo di pacificazione, l’applicazione dello Stato di diritto e il ripristino di adeguate condizioni di sicurezza, non controllando ampie parti del paese, soprattutto nel Fezzan e nella Cirenaica. Basti ricordare che, pochi giorni orsono, i parlamentari libici, mentre stavano discutendo la delicata legge sull’“isolamento politico” degli ex collaboratori del governo Gheddafi, sono stati sequestrati per ore da una folla di manifestanti che hanno assediato la sala dove erano riuniti. E non solo, uomini armati hanno aperto il fuoco contro l’auto del presidente del parlamento libico, Mohamed Magarief, per altro già scampato a un attentato a inizio gennaio a Sabh.
A questa grave instabilità politica fa eco il problema, mai sopito, dell’endemico stato di insicurezza in cui versa il paese e che rischia di consegnare la Libia al dominio dei tuwwar, le bande armate dei ribelli che, dopo la fine delle ostilità e la disgregazione delle forze militari del regime di Gheddafi, hanno occupato il territorio libico, costituendosi come micro-gruppi di potere con un controllo territoriale circoscritto.
Queste fazioni armate si sono arrogate il diritto del mantenimento dell’ordine nelle città e nelle aree da loro controllate, al di fuori di qualunque principio di rispetto della legalità. Recenti stime parlano addirittura di 20.000 miliziani raggruppati in bande, alcune delle quali non riconoscono la legittimità degli organi eletti e preposti al governo del paese e che, dunque, stabiliscono autonomamente le proprie “leggi”, se necessario applicate anche attraverso processi di giustizia sommaria o di veri e propri atti di forza. Proprio a causa di scontri tra gruppi armati, il 2 marzo l’Eni ha dovuto sospendere, per ragioni di sicurezza, la produzione e l’esportazione di gas dall’impianto di Mellitah verso la Sicilia attraverso il gasdotto Greenstream dal quale, peraltro, proviene il 15% circa del fabbisogno italiano. Anche se, nel momento in cui si scrive, le forniture sembrano essere riprese a pieno regime, i problemi per la sicurezza restano.
Ma lo strapotere delle milizie, e la conseguente assenza di un sistema di giustizia legittimo, non mette a rischio solo la stabilità dell’economia libica ma anche la vita del suo stesso popolo e, soprattutto, delle minoranze. E’ di pochi giorni fa la notizia del sequestro di circa un centinaio di egiziani di fede copta, da parte di una brigata salafita, accusati di proselitismo e per questo torturati. Altrettanto recente è l’assalto a una scuola europea di Bengasi da parte della milizia jihadista libica Ansar al-Sharia (a cui è stato addebitato anche l’attacco alla sede Usa in cui è rimasto ucciso l’ambasciatore americano Chris Stevens) i cui docenti sono stati ritenuti colpevoli della diffusione di immagini troppo esplicite in un testo di educazione scientifica. Proprio questi ultimi due episodi ci riportano ad un ulteriore problema del paese: quello dell’estremismo islamico di matrice qaedista. “Sfruttando” i gruppi salafiti, ideologicamente affini e forti soprattutto nell’est del paese, Al Qaeda sembra aver varcato i porosi confini libici, cercando di connettere tra loro i gruppi cirenaici responsabili di questi e altri numerosi attacchi. Senza un maggiore controllo da parte delle ancora deboli istituzioni centrali la Libia potrebbe diventare terreno privilegiato per l’espansione della rete di movimenti estremistici, convogliando il consenso di molti degli oppositori dell’attuale governo, accusato dai jihadisti di aver tradito la rivoluzione, svendendo il paese all’occidente.
Quelli fin qui ricordati sono solo alcuni dei problemi di uno Stato che, forse, per la prima volta dalla sua nascita, tenta di divenire tale. Ma se la legge del più forte continuerà a prevalere sul rispetto delle istituzioni e, prima ancora, sul loro riconoscimento, l’ipotesi che “la profezia del rais” si avveri può tramutarsi in una drammatica realtà.