Martedì scorso sono iniziati i colloqui di pace di “Ginevra 6”. La copertura giornalistica su questi negoziati è stata pressoché nulla: se ne sono occupati solo i giornali arabi come al Mayadeen e pochi altri.
Come sempre, nei negoziati, senza eccezione, i rappresentanti delle opposizioni armate che dovrebbero rappresentare il popolo siriano sono stati scelti tra i gruppi più rappresentativi sul campo di battaglia e quindi tra i jihadisti provenienti dalla provincia di Idlib. Un recente reportage video fortunosamente girato da alcuni giornalisti degli Emirati Arabi dimostra in maniera inequivocabile che il controllo quasi assoluto del territorio e dell’amministrazione pubblica in Idlib (il più grande centro urbano in mano ai cosiddetti “ribelli”), è detenuto ed esercitato da al Qaida (nelle sue varie declinazioni, Jabhat al Nusra o Fatah al Sham), insieme ai suoi alleati salafiti di Ahrar al Sham e del Partito Islamico Turco. Inoltre, le forze di queste formazioni (su cui l’occidente ha insistito fosse stabilita una “safe zone”), sono composte perlopiù da cinesi uighuri e islamisti delle repubbliche turcofone dell’Asia centrale. Solo una sparuta minoranza di queste milizie è composta da siriani che comunque soggiacciono alle legge della sharia.
I negoziati sono un po’ irreali, visto che i tutti i grandi centri urbani, Aleppo, Damasco, Latakia, Hama, Homs sono sotto il controllo governativo. In queste località vive la maggior parte della popolazione siriana che sostiene il proprio presidente. Le trattative sono quindi tra le “potenze sponsor”.
Quindi se le forze in gioco sono queste, perché la guerra siriana continua? Mons. Abou Khazen, vicario di Aleppo, ha risposto più volte a questa domanda. In particolare, il 27 luglio 2016 in un’intervista a Radio Vaticana diceva: “Sono anni che noi vescovi del Medio Oriente mettiamo in guardia quei poteri occidentali che, pur di perseguire i propri interessi, non esitano ad appoggiare i gruppi di invasati che perseguono l’ideologia jihadista”. In quell’occasione, il vescovo di Aleppo ha affermato inequivocabilmente che nessuna delle grandi potenze occidentali trova “conveniente” mettere al primo posto la motivazione morale che chiaramente richiede di prescindere dai propri interessi a favore del bene dei popoli. “Gli interessi” di cui parlava Abou Khazen non sono certo i “diritti umani” o le libertà. I governi occidentali “stanno lavorando per la sicurezza di Israele e per dividere la Siria e l’Iraq, per mettere così le mani sulle ricchezze di questi Paesi” (mons. Jacques Behnan Hindo, arcivescovo di Assakè su Asia News).
E’ per questo che, sovraccarichi di questa insincerità di fondo, i “poteri occidentali” (nella perenne incapacità e volontà di formulare un giudizio morale e di sottomettervisi), nelle trattative di pace, inanellano un insuccesso dietro l’altro.
Inoltre il segno di questa confusione e di questa insincerità nelle intenzioni è chiaramente il doppio formato dei negoziati: Astana e Ginevra. La differenza sostanziale tra i due tavoli di trattative è che, in quelli di Astana, Russia, Turchia ed Iran si sono fatte garanti del cessate il fuoco, come in una sorta di “peace enforcing”. Invece nei negoziati di Ginevra, conclusi sabato scorso con un nulla di fatto, le opposizioni armate, forti della presenza dell’Onu e di tutti gli onori tributatigli dal consesso internazionale, hanno ancora una volta dettato la cacciata di Assad come precondizione a qualsiasi accordo. A questo sistema, molto efficace per far fallire sicuramente le trattative e prolungare all’infinito il conflitto, è accompagnata la mistificazione degli eventi e la costruzione di false flag. In sostanza i negoziati di Ginevra sono stati sempre usati durante questi anni come palcoscenico per legittimare una condanna internazionale che giustificasse un coinvolgimento occidentale sempre più diretto contro la Siria. Dalla strage di Hama al falso attacco dei gas a Ghouta, dal falso attacco chimico di Khan Sheikhun al finto dossier “Caesar” in poi, è stato sempre così. Tutti gli eventi più brutali e le accuse più eclatanti sono avvenuti in concomitanza con i negoziati di pace.
Anche Ginevra 6 ha mostrato la non casualità di questi eventi: anche in questo caso, in concomitanza con l’apertura dei negoziati, l’amministrazione americana ha pensato bene di lanciare nuove accuse contro Assad e introdurre ulteriori sanzioni contro la Siria.
Le nuove denunce del Dipartimento di Stato americano sono un proseguimento di quelle lanciate pochi mesi fa tramite il dossier “Caesar”, contenente migliaia di fotografie su torture ed esecuzioni di massa che sarebbero state compiute dal governo siriano. Tuttavia, il dossier era già stato confutato più volte. L’evidenza più grande di queste controdeduzioni è che una simile accusa porta con sé una contraddizione evidente: se si vuol fare sparire “il corpo del reato” non lo si cataloga e non lo si fotografa.
Inoltre, la maggior parte delle foto che costituivano il dossier Caesar raffiguravano soldati siriani e morti nelle più svariate circostanze: in sostanza le foto sembrano essere più il frutto del normale lavoro di catalogazione di un centro ospedaliero di medicina legale che non di un obitorio di un centro di detenzione.
Ebbene, dopo quelle accuse è stato il turno dei “forni crematori di Assad”: il portavoce del Dipartimento di Stato americano Stuart Jones, martedì scorso, basandosi esclusivamente su immagini satellitari, ha dichiarato che nel carcere di Saidnaya (Damasco) vengono usati forni crematori “per coprire l’entità degli omicidi di massa che si verificano”. L’intento era chiaramente quello di suscitare la condanna e la riprovazione internazionale, ma l’accusa è stata così debole e maldestra da indurre l’Onu stesso a diramare una propria dichiarazione in cui si è ammesso l’inconsistenza delle prove (vedi qui e qui). Tuttavia, nonostante gli elementi a disposizione non dimostrino alcunché, tanto è bastato per scatenare reazioni isteriche (tanto che il ministro israeliano Yoav Galant è arrivato persino ad esortare il suo governo a procedere all’uccisione di Assad). Ma non è tutto: mercoledì, sempre in concomitanza con i negoziati di Ginevra 6, aerei Usa hanno effettuato un attacco contro una colonna militare composta da forze dell’esercito siriano e alleati della milizia sciita irachena “Kataib al-Imam Ali”. La colonna mirava a riprendere il controllo della frontiera. L’aggressione è avvenuta a 27 km dalla cittadina di al Tanf posta nei pressi del valico sul confine siriano-iracheno. Il bilancio è stato di un carro armato distrutto, 6 morti e 3 feriti.
Il raid, che secondo fonti Usa è stato preceduto da “fuoco di avvertimento”, è avvenuto perché la colonna militare siriana si stava avvicinando troppo ad al Tanf dove stazionano forze miste americane, britanniche e mercenarie siriano-giordane. Il fatto avvenuto è estremamente grave per due ragioni: la prima è che la Comunità internazionale non consente all’esercito legittimo siriano di controllare il proprio territorio; la seconda è che ora la coalizione Usa, per supportare le milizie mercenarie dell'”esercito democratico siriano”, non si limita più ad agire dietro le quinte, ma interviene direttamente ogni qualvolta queste milizie sono in pericolo.
In definitiva, la coalizione internazionale che era nata per far fronte comune contro Isis ora sembra aver assunto un altro compito: quello di fungere da esercito di occupazione. Così hanno fatto i turchi al nord della Siria, così stanno facendo americani e britannici a sud della Siria al confine giordano. La motivazione di difendere gli alleati è assurda: gli “alleati” non sono altro che mercenari addestrati in Giordania da utilizzare come “forze spontanee anti-Assad” da usare come paravento per giustificare l’invasione. D’altra parte le tribù beduine reclutate delle aree rurali è notorio che sono lontane per mentalità dalla politica e accettano di passare continuamente dalla parte del miglior offerente.
Comunque, a quando pare, l’esercito siriano non ha rinunciato a riprendere la zona attigua alla frontiera giordana. Successivamente all’attacco Usa, le forze armate siriane, coadiuvate da Hezbollah e paramilitari iracheni (e grazie alla copertura di aerei Su-30 dell’aviazione russa), sono state in grado di conquistare più di 90 chilometri quadrati di territorio verso il confine giordano, nella parte orientale della provincia di Suwayda.
Allo stato attuale, mentre migliora il processo politico tra siriani (sono circa un migliaio i gruppi armati che si sono riconciliati con il governo centrale), persistono difficoltà solo con i gruppi finanziati dall’esterno che stanno ricevendo rinnovato supporto dagli Usa.