A un mese dalla morte di Gheddafi la Libia inizia a pianificare il proprio futuro tra qualche speranza e molte incertezze. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 31 ottobre ha restituito definitivamente la Libia ai libici, delegando ai leader del governo provvisorio l’arduo compito di ricostruire, o meglio di costruire, il paese, dimostrando una indiscutibile fiducia nelle capacità del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) e dei suoi membri più rappresentativi. Resta ora da capire se queste speranze sono state ben riposte e soprattutto cosa possiamo aspettarci da coloro che devono ricomporre il complesso puzzle libico.
Nel corso della guerra in molti hanno ricordato come le incognite più evidenti del dopo Gheddafi fossero essenzialmente riconducibili a due ordini di motivi: l’assenza di istituzioni e la persistenza di un tessuto sociale a forte connotazione tribale e localistica. Oggi che la fase destruens si è conclusa e si sta lentamente passando alla successiva fase construens, questi due problemi diventano macigni sul futuro del paese.
Da un punto di vista istituzionale Gheddafi lascia in eredità una “scatola vuota”, senza una costituzione, senza partiti, senza un apparato militare e soprattutto senza una società civile unitaria. E’ su questo foglio bianco che i nuovi leader del paese dovranno iniziare a disegnare la Libia del futuro. Il colonnello, però, lascia anche in eredità il peso dell’unica istituzione che, durante il suo lungo “regno”, non è mai riuscito mai a smantellare: le tribù che, anzi, escono rinvigorite dal conflitto, non avendo più la spada di Damocle del raìs che a suon di proventi petroliferi gestiva dall’alto il sistema tribale. A queste si aggiungono gli altri gruppi armati, difficilmente definibili e per questo più temibili, che hanno combattuto sotto “l’ombrello” della Nato e che ora chiedono il proprio posto a sedere nel tavolo delle trattative.
In questo difficile contesto, sotto lo sguardo dell’occidente, i libici tentano di porre le basi per la creazione di uno Stato. I primi segnali positivi vengono dal Cnt che di recente ha eletto democraticamente il nuovo primo ministro del governo libico ad interim, Abdul Al-Raheem Al-Qeeb, un ingegnere e docente universitario di Tripoli che ha dichiarato di volersi impegnare a “costruire una nazione che rispetterà i diritti umani, lavorando fianco a fianco con il Cnt e dialogando con la gente”. Nell’attesa dell’assemblea costituente e delle successive elezioni, previste entro 20 mesi, la tabella di marcia del nuovo premier prevede la ricostruzione delle città distrutte durante i combattimenti, il reinserimento lavorativo dei ribelli, il disarmo e la messa in sicurezza delle armi e, infine, la ripresa della produzione petrolifera. Una road map di tutto rispetto, dunque.
Ieri, poi, dopo una serie di rinvii che non facevano presagire nulla di positivo, è stato deliberato il nuovo esecutivo ad interim, che traghetterà il paese verso le elezioni, formato da 24 ministri la cui composizione rispecchia le complessità e le molte anime dell’attuale panorama politico ed economico del paese. Tra i nomi più rilevanti, Abdurahman Ben Yezza, un ex dirigente dell’Eni, guiderà il ministero del petrolio, mentre Ashour Bin Hayal, un politico di Derna, la città più religiosa della Libia, è stato nominato ministro degli Esteri. Alla guida del ministero della Difesa, invece, Osama al-Juwali, capo militare del combattivo clan degli Zintani, uno dei gruppi di ribelli più attivo durante la guerra civile, che ha contribuito in maniera decisiva alla cattura di Saif Al Islam e che, dunque, è stato ricompensato con una delle sedie più ambite del nuovo esecutivo, nonostante in molti avessero scommesso su Abdelhakim Belhaj, capo del consiglio militare di Tripoli e storico leader del fronte islamico combattente. Il ministero dell’Economia e delle Finanze, invece, rispettando le previsioni, è stato affidato ad Ali Tarhouni
Basta una rapida lettura dei nomi dei nuovi leader per capire come questo governo sia la risultante di compromessi e difficili trattative che, in ogni caso, testimoniano sforzi apprezzabili sulla via di una difficile comunione di intenti per il futuro.
Altra novità nel panorama politico, riguarda i Fratelli musulmani libici, duramente repressi sotto il regime di Muammar Gheddafi, che, sotto la guida di Suleiman Abdel Kader, hanno aperto a Bengasi il loro primo Congresso pubblico in Libia per valutare la concreta possibilità di dare vita ad un vero e proprio partito.
Nonostante questi piccoli passi avanti verso il futuro, sotto alle macerie delle città devastate e saccheggiate, emerge uno scenario decisamente poco roseo. Durante gli otto mesi di rivolta sono nate circa 40 milizie che ora scorrazzano armate per il paese. I berberi, fino a poco tempo fa confinati nel desertico Fezzan, hanno abbandonato i propri villaggi per combattere e non hanno alcuna intenzione di ritornarsene a casa senza avere prima una contropartita in termini di posti al potere e risorse finanziarie, mentre la Brigata di Misurata, ancora ben armata, non sembra voler mollare il colpo. Nel frattempo continuano gli scontri tra le diverse fazioni che, lungi dal voler restituire le armi fornite dall’occidente, ne approfittano per risolvere con esse qualche piccola “controversia personale” o rivendicare la “proprietà” delle porzioni di territorio conquistate durante la guerra.
Ad aggravare la già delicata situazione potrebbero arrivare anche minacce esternese, come accusa lo stesso Mahmoud Jibril, alcuni stati, primo tra tutti il Qatar, per potersi assicurare posizioni di potere nella nuova partita per il controllo del petrolio e del gas, continuano a fare affluire ingenti quantitativi di armi nel paese destinate ai gruppi islamici più radicali. Come se di armamenti ce ne fosse ancora bisogno, visto che da qualche parte, nello sconfinato territorio libico, potrebbero esserci le armi chimiche e batteriologiche nonché i missili terra-aria di Gheddafi.
Le sfide che attendono il Cnt, dunque, sono enormi: disarmare definitivamente i gruppi combattenti; fornire una adeguata rappresentatività a tutte le fazioni di ribelli e, prima ancora, tentare una difficile riconciliazione fra queste e i gruppi di fedeli al passato regime; costruire praticamente da zero delle istituzioni unitarie che sappiano però tenere conto delle esigenze e delle rivendicazioni delle varie componenti regionali e tribali e, infine, garantire, finalmente, un’equa spartizione e redistribuzione dei proventi del petrolio.
In altre parole, si dovrà partire da zero, cercando di costruire un vero Stato di diritto ma, prima ancora, sarà necessario costruire una nazione con uno spirito unitario, in assenza della quale, qualunque sforzo, per quanto apprezzabile, sarà inevitabilmente destinato a cadere nel vuoto.