Monteroduni, in Molise, Polistena, in Calabria e Niscemi in Sicilia hanno un legame comune che li conduce direttamente in Argentina: sono difatti i paesi dove hanno avuto origine le famiglie di Daniel Scioli, Mauricio Macri e Sergio Massa, i candidati più prossimi a essere eletti Presidente dell’Argentina nelle prossime votazioni che si terranno il 25 ottobre: in caso che nessuno superi il 40% si procederà a un ballottaggio la domenica successiva.
Non è la prima volta che un argentino di origini italiane raggiunge la massima carica nel Paese latinoamericano: mettendo da parte la credenza sulle origini sarde di Peron (la cui famiglia a detta di alcuni si chiamava Peroni), è già successo nel 1958, quando il radicale Arturo Frondizi governò il Paese in una delle presidenze più illuminate che la storia ricordi e in uno dei pochissimi momenti in cui il nome Argentina fece il paio con quello di Repubblica. Un periodo anche di uno sviluppo di cui Frondizi (originario di Gubbio) aveva posto le basi, specie attraverso i piani sviluppati dal suo segretario per lo sviluppo, Rogelio Frigerio. Ci pensò poi un golpe militare a far ritornare tutto nella “normalità” nel 1962.
L’occasione attuale da una parte si può ritenere storica perché, nonostante la stragrande maggioranza della popolazione argentina abbia origini nostrane, come si è scritto, solo una volta l’obiettivo massimo è stato centrato: ma mai con la totalità dei candidati “papabili”, visto che gli altri partecipanti alle elezioni distano anni luce nelle percentuali dei pronostici. Dall’altra parte, purtroppo le incognite sono grandissime perché il prossimo Presidente Argentino riceverà in “dono” dal kirchnerismo un Paese economicamente distrutto, con un’economia basata sull’imponente statalizzazione di tutto il possibile (ancora pochi giorni fa si è proceduto a un’immissione di altre 23.000 persone nell’apparato statale), con una povertà del 28% (40% infantile), dove l’odio e non il dialogo la fa da padrone provocando una divisione molto forte a vari livelli, ma soprattutto, come rilevato dall’agenzia Americana Moody’s, con riserve in dollari della Banca centrale che dureranno fino a dicembre. Un’eredità molto simile a quella che il radicale de La Rua ricevette nel 1999: una bomba economica lasciatagli dal menemismo (altra versione del peronismo) che esplose nel triste 2001, anche per la totale incapacità del Presidente di affrontare la situazione. Mettiamoci anche che il narcotraffico ha ormai sotto il suo controllo grandi aree del Paese e che la sicurezza ha raggiunto i livelli minimi e il poco invidiabile quadro è completo.
Daniel Scioli è il rappresentante del partito di Governo (il kirchnerista Frente para la Victoria): ha finora raccolto più voti alle primarie, ma la percentuale, se ripetuta domenica, non garantisce la vittoria completa. D’altronde nella sua carriera politica, l’ex manager e motonauta è stato il peronista per tutte le stagioni, seguendo sempre il potere di turno da sottomesso e proponendosi al kirchenrismo per puro calcolo politico sin dalla sua vicepresidenza sotto Nestor Kirchner. In molti difatti pensano che una volta raggiunta la massima carica, soprattutto per il potere che dal 1994 ha il Presidente attraverso un decreto che rende l’Argentina più assimilabile a un viceregno che a una repubblica, ci sarà un suo voltafaccia ideologico, caso non raro: si pensi che Kirchner doveva essere il delfino del peronista Duhalde quando raggiunse il potere. Per questo Cristina Fernandez de Kirchner ha di fatto circondato Scioli di suoi collaboratori e riempito i punti nevralgici dello Stato di appartenenti al gruppo della “Campora”, le sue “Guardie rosse”.
Ma com’è possibile che in un Paese dove circa il 70% dell’elettorato si dichiara contro l’attuale potere, il suo candidato raccolga la maggioranza? Semplice: perché da una parte, specie le regioni del Nord, comandate da Governatori “eterni” fedelissimi al potere centrale, costituiscono un formidabile laboratorio per brogli di vario genere (come dimostrato a Tucuman il mese scorso). Poi perché proprio la statalizzazione asfissiante, unita a vari piani sociali che si risolvono in elemosine alle classi più povere ma che ne mantengono lo status, sono un formidabile serbatoio elettorale scevro da qualsiasi calcolo. Un voto si può ottenere con una promessa di un alloggio, di elettricità, di acqua, alla faccia dei “diritti umani” sbandierati ai quattro venti in questa decade.
Altra grande incognita per un effettivo cambio è rappresentata da un altro peronista, l’ex sindaco del quartiere del Tigre di Buenos Aires: Sergio Massa. La sua metamorfosi è davvero curiosa: kirchnerista al punto dia essere eletto ministro degli Interni, personaggio che arrivò a compiere azioni diplomatiche contro Bergoglio (che il kircherismo odiò fino a dopo la sua elezione a Papa), si allontanò dal potere governativo fino a diventarne acerrimo nemico e circa due anni fa, attraverso una gigantesca campagna mediatica, trasformandosi nella più valida alternativa al potere attuale. La sua popolarità è drasticamente calata sopratutto per due ragioni: in primis lo scioglimento dell’alleanza oppositrice Unen che si era formata anni fa e l’alleanza tra Macri (l’altro candidato) e la deputata Elisa Carriò, fatti che hanno contribuito a far convergere su questa formula molti voti del fronte antikirchnerista. E poi le accuse che la stessa deputata ha dispensato sia a lui che al capo gabinetto presidenziale Anibal Fernandez di essere legati al narcotraffico.
C’è da dire che il quartiere da lui ha governato, il Tigre, situato sul delta del fiume Paranà, sebbene Massa abbia operato delle migliorie notevoli al suo aspetto e sicurezza, è indiscutibilmente in molte zone una terra di nessuno controllata dai narco che hanno pure lì le loro sontuose residenze. Rimane il fatto che Massa sarà sicuramente decisivo in caso Scioli debba ricorrere al ballottaggio elettorale, perché a quel punto l’ago della bilancia si sposterebbe inevitabilmente su Mauricio Macri.
Candidato del fronte “Cambiemos”, che raggruppa gran parte dell’opposizione, ex imprenditore ed ex presidente della squadra di calcio del Boca Juniors, è il fondatore del partito Pro, con il quale ha governato la città di Buenos Aires, realizzando opere che ne hanno cambiato in parte la faccia, seppur contrastato in molte di esse dal potere centrale dello Stato in fatto di finanziamenti. Per molti è l’unica alternativa a un altro governo peronista: anche se il luogo comune che da anni lo accompagna lo dipinge come un sostenitore del liberalismo più sfacciato. Di certo c’è il disinteresse dimostrato nella lotta contro il lavoro nero a Buenos Aires, che pullula di laboratori tessili clandestini (circa 1500) in cui operano persone segregate e trattate come schiavi.
Come si vede, un panorama non proprio esaltante, tanto da far tornare alla mente una storica frase di Indro Montanelli: tapparsi il naso e votare, questa volta in nome di un diritto inalienabile. Quello, finalmente, di poter vivere una Repubblica.