Sempre più frequente sorge la preoccupata domanda se il mondo sia sull’orlo di una terza guerra mondiale, che potrebbe anche essere l’ultima, vista la diffusione degli ordigni nucleari. Le analisi degli esperti individuano varie aree per un possibile scontro diretto tra le tre grandi potenze, Stati Uniti, Russia e Cina. Per Stati Uniti e Russia si indicano l’Ucraina e il Medio Oriente, per Cina e Stati Uniti critici sono i conflitti nel Mar Cinese del Sud, Taiwan e, se non risolta, la questione nordcoreana. Viene invece data scarsa attenzione a un possibile conflitto cino-russo, anzi si tende ad avvicinare sempre più Mosca e Pechino tra loro, in un’ottica di difesa dall’Occidente.
A questo quadro si aggiunge un elemento particolarmente preoccupante: l’aspro conflitto negli Stati Uniti tra il presidente, Donald Trump, e il cosiddetto “Deep State”, definizione che sta sostituendo, con un significato anche più ampio, il vecchio termine di establishment. Questo Deep State sembra convinto di essere il “padrone del mondo”, disposto a mettere a rischio non solo il resto del mondo, ma perfino gli stessi Stati Uniti. E’ preoccupante, e imbarazzante, vedere il comandante in capo di quella che è ancora la maggior potenza mondiale accusato di aver barato alle elezioni, di essere al soldo del Cremlino o, addirittura, di essere insano di mente. Accuse che non trovano opposizione neppure nel suo partito e che portano a costanti minacce di impeachment. Del tutto incuranti, appunto, di quanto ciò metta a repentaglio la leadership degli Stati Uniti, non solo di Trump.
Non occorre essere cospirazionisti, direbbe Mauro Bottarelli, per pensare che il Deep State veda nell’inasprirsi dei conflitti una via per riappropriarsi di tutto il potere, incrementando anche gli affari dell’industria bellica, uno dei suoi principali azionisti. Il lato paradossale è che, al di là dei modi, nella sostanza Trump non si sta allontanando dalle linee guida della politica estera dei suoi predecessori, appartenenti a quelle che Giulio Sapelli definisce “le tre famiglie più disastrose della storia americana (i Bush, i Clinton e gli Obama)”. L’unica importante differenziazione, un atteggiamento meno conflittuale verso Mosca, gli è stata impedita con i ripetuti e opinabili “Russiagate”.
Gli Stati Uniti si trovano ora davanti a una scelta, come scrive ancora Sapelli: “scegliere se rinverdire il realismo kissingeriano o produrre una nuova volontà di potenza dai toni ossessivamente nazionalistici”. L’obiettivo di Kissinger era comunque il predominio globale degli Stati Uniti, in una situazione mondiale peraltro ben diversa. Comunque, Trump sembrerebbe aver scelto la seconda opzione, in linea con quanto sta succedendo per i due maggiori “concorrenti”: un nuovo imperatore in Cina e un nuovo zar in Russia.
Il nazionalismo è ultimamente diventato oggetto di condanna, ma parrebbe una condanna riservata al nazionalismo degli altri. Russia, Cina e Stati Uniti non sono di certo gli unici ad avere il nazionalismo nel loro Dna, unito alla convinzione di un proprio ruolo, o missione, nel mondo. Si pensi al pangermanismo tedesco, ben precedente la necrosi nazista, alla britishness inglese, alla hispanidad spagnola, alla grandeur francese. Se ora il nazionalismo sta tornando alla ribalta è anche per il fallimento di costruzioni sovranazionali basate su principi astratti, lontano dal sentire comune, ma probabilmente funzionali agli interessi di élite più o meno illuminate.
Le guerre si possono evitare con il confronto dei contrapposti interessi e la ricerca di un soddisfacente compromesso tra loro. Un compito tutt’altro che facile e con un risultato che, purtroppo, è spesso negativo, ma è l’unica strada. Questa strada però richiede che vi siano soggetti che possano giungere a un ragionevole compromesso: popoli, nazioni, Stati che abbiano una precisa identità e che siano disposti a giocarla nel confronto, non nello scontro, con altrettante precise e diverse identità. In fondo, è su questa base che si è ricostruita l’Europa distrutta dalla guerra, una concezione che si è via via persa nello scontro tra un vuoto e strumentale sovranazionalismo e un nazionalismo stravolto.