Nei cinque mesi iniziali della rivoluzione siriana (durante i quali le milizie fedeli al regime di Bashar al Assad hanno provocato la morte di oltre 1700 civili), nel bel mezzo di un mondo arabo annebbiato dai fumi degli attacchi militari Nato contro Gheddafi (perpetrati in nome della “responsabilità di proteggere” i ribelli contro il raìs libico), il silenzio della comunità internazionale sulla violenza con cui il governo di Damasco sta soffocando le manifestazioni antigovernative è stato il tonfo più eclatante.
Questo doppio standard, come più volte abbiamo scritto sulle pagine de IlSussidiario.net, si è articolato attorno alla convinzione che Bashar al Assad fosse una pedina necessaria al mantenimento dell’equilibrio regionale e che, dunque, convenisse a tutti (Stati arabi, vicini mediorientali – Turchia, Israele – e paesi occidentali) un po’ di connivenza in virtù di un impellente vincolo strategico.
Negli ultimi tre giorni, tuttavia, questo assunto si è andato sgretolando al ritmo di un fuoco di fila, in cui peraltro – ancor più sorprendentemente – a imbracciare il fucile non è stata Washington bensì il mondo arabo, sotto l’impulso di Riad: domenica scorsa l’Arabia Saudita ha richiamato il suo ambasciatore a Damasco, invitando Assad a fermare “la macchina di morte” contro il suo popolo; nello stesso giorno è arrivata la prima ufficiale condanna della Lega Araba contro il regime siriano; il giorno seguente il Kuwait e il Bahrein hanno seguito l’esempio (leggi eseguito i dettami) del gigante del Golfo, condannando la violenza che il governo di Damasco sta utilizzando contro il suo popolo.
Da qual pulpito viene la predica, sarebbe il caso di dire, visto che non troppe lune son passate da quando la dinastia di Al Khalifa, che regna sul piccolo Stato del Bahrein, ha represso duramente le proteste della maggioranza sciita della popolazione. E questo anche grazie all’intervento dell’Arabia Saudita che ha prontamente lanciato oltre il confine le sue truppe per soccorrere l’alleata casa regnante proprio mentre offriva asilo ai leader arabi malmenati o cacciati dagli altri paesi rivoluzionari.
Ma non è finita qui: sempre lunedì scorso il Ccg (Consiglio di cooperazione del golfo) si è riunito per discutere della crisi siriana; la monarchia giordana si è unita al coro dei reali arabi condannando la condotta del regime confinante mentre dal Cairo la prestigiosa istituzione sunnita Al Azhar ha tuonato per la prima volta contro la repressione damascena. La visita avvenuta martedì scorso nella capitale siriana da parte del ministro degli Esteri turco, Ahmed Davutoglu, che ha chiesto la ferma e immediata fine delle operazioni militari, ha suggellato, infine, la levatura regionale della stigmatizzazione di Assad.
Questo turn point diplomatico è certamente spia di quanto la forza di Assad sia stata finora sovrastimata, ma ci chiarisce anche quanto i suoi vicini mediorientali siano sempre più convinti che formulare un ordine regionale senza il medico di Damasco sia ormai addirittura più conveniente che mantenere in vita una condizione di crisi stagnante. Ma chi potrebbe essere in grado di ricostruire un assetto regionale arabo post-Assad?
Nell’inatteso attivismo dall’Arabia Saudita (non dimentichiamo che all’inizio della rivoluzione Riad aveva scelto di non interferire con gli affari interni di Damasco), nella tardiva condanna di Assad che stride con la scarsa attenzione alla difesa dei diritti umani da parte del regno di Abdallah, c’è la risposta – o meglio la volontà di offire una risposta: il gigante del Golfo ha in mente un nuovo disegno regionale entro cui rilanciare quel ruolo egemonico che gli era stato sempre storicamente negato proprio dall’imponenza del fronte repubblicano, laico e socialisteggiante (Iraq di Saddam, Siria, Egitto e Yemen).
Il precipitare della crisi siriana che nel corso di questi cinque mesi ha reso sempre meno credibile la stabilità del ruolo equilibrante che la famiglia Assad ha garantito al Medio Oriente per quasi 50 anni, ha parallelamente imposto all’Arabia Saudita una riconsiderazione del suo stesso ruolo fino all’ipotesi, mai realmente percorsa, dell’assunzione di una responsabilità egemonica, che vada al di là dell’acquisto di fedeltà politiche regionali a suon di petrodollari. Nel far questo la dinastia di Abdallah sta puntando in primo luogo a promuovere in tutta la regione l’instaurazione di un potere che trovi la sua referenza principale nell’islam sunnita.
Potrebbe essere questa la spiegazione dell’interruzione repentina dei rapporti con il regime alawita (sciita) di Assad. In secondo luogo, l’Arabia Saudita sembra voler scommettere sulla riproposizione della vecchia dicotomia inter-araba fronte delle monarchie (religiose) contro quello delle repubbliche (laiche): la proposta di accogliere nel Ccg la Giordania e il Marocco non è che uno dei primi tasselli di questa strategia.
Sullo sfondo di questi due propositi c’è, infine e soprattutto, la volontà di creare le condizioni ideologiche e strutturali di un potere regionale che si opponga all’influenza dell’Iran sciita, fin dall’inizio della rivoluzione siriana sostenitore militare e finanziario di Damasco oltre che principale minaccia alla stabilità del Golfo e dell’intero mondo arabo.
L’Arabia Saudita è ovviamente forte degli ingenti flussi di denaro derivanti dai proventi petroliferi con cui potrebbe finanziare un progetto politico di questo genere, ma l’inevitabile esacerbazione della già delicata frattura sciiti-sunniti che ne deriverebbe e in cui necessariamente cadrebbe l’attuale governo libanese, capeggiato dal partito sciita di Hezbollah, il nuovo Iraq oltre a una ipotetica Siria post-Assad (sunniti vs alawiti) rendono la scommessa del gigante del Golfo estremamente pericolosa.