È da tempo che sulla questione dei nuovi insediamenti a Gerusalemme Est, Americani e israeliani mantengono posizioni molto diverse, ma raramente questa divergenza di opinioni era stata manifestata in maniera tanto plateale. Sono molto lontani i giorni in cui il presidente George Bush riusciva a ottenere che il governo di Gerusalemme non reagisse ai bombardamenti missilistici da parte di Saddam Hussein, ai tempi della guerra del 1990-91. Sono altrettanto passati i momenti di granitica intesa tra l’amministrazione di George W. Bush e lo Stato di Israele, ai tempi della guerra contro l’Iraq nel 2003.
Meno di una settimana fa, il governo Nethanyau non si è nemmeno preoccupato di evitare che l’annuncio di nuovi insediamenti a Gerusalemme est avvenisse in concomitanza della visita del vicepresidente americano Biden. A ruota, il segretario di Stato Hillary Clinton ha definito “oltraggioso” un simile atteggiamento, per poi richiamare Israele alla “necessità di adottare scelte tanto coraggiose quanto dolorose”. Un invito rispedito al mittente a stretto giro di posta, insieme alla conferma che Israele ritiene “un suo diritto costruire nuove case a Gerusalemme Est”.
Toni duri, che non convengono a nessuno, e che comunque caratterizzano il dialogo tra due attori che sanno benissimo di non poter fare a meno l’uno dell’altro. Difficile infatti non ricordare come proprio nelle fasi più roventi della polemica, Hillary Clinton avesse precisato che «l’impegno americano per la sicurezza di Israele resta assoluto», affermazione che, alle orecchie arabe, aveva fatto subito derubricare lo scontro a una baruffa più apparente che di sostanza, la classica manifestazione del “doppio standard” (doppiopesismo diremmo in Italia) applicato dagli Usa al Medio oriente.
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In effetti, se gli Usa sono un sostegno centrale per la sicurezza strategica israeliana, è altrettanto vero che lo Stato ebraico è l’unico vero alleato che Washington ha nella regione. I tanti progetti americani di estendere la propria rete di alleanze regionali sono infatti naufragati di fronte all’incapacità/impossibilità di risolvere l’oltre sessantennale conflitto arabo-israeliano. Sulle prospettive di una pax americana nella regione, aveva scommesso l’Egitto di Sadat: una scommessa poi reiterata, sia pure con minor pathos, da Mubarak. Si è visto come è finita: con la lunga emarginazione dell’Egitto nel mondo arabo, con la sua sostanziale esclusione dal Medio oriente, e con il baratto tra una posizione di potenziale co-leadership in un Medio oriente pacificato sotto l’egida di Washington e un vitalizio cospicuo e decisivo per la sopravvivenza del regime.
Oggi gli israeliani sembrano credere che neppure sul dossier iraniano l’America riuscirà a portare a casa un incremento decisivo di sicurezza per Israele. E così muovono per conto proprio, incuranti delle preferenze dell’amministrazione Obama, consapevoli che comunque, qualora si arrivasse a un malaugurato show down, Washington non lascerà solo Israele. È un rischio calcolato o è un calcolo rischioso? Molto dipenderà proprio dalla capacità di israeliani e americani di navigare fuori della burrasca di questi giorni, ognuno cercando quel vantaggio tattico che gli consenta di rubare il vento al rivale. Per il momento Israele non vira, e toccherà agli americani inventarsi qualcosa per rimontare.
La sensazione generale è infatti quella che la leadership americana nella regione sia in affanno, e non certo per colpa esclusiva di questa amministrazione, e che la mossa necessaria del ritiro dall’Iraq debba essere controbilanciata in qualche modo. Impresa non facile, ma tutti sperano che, incassato il successo sulla riforma sanitaria, il presidente Obama torni a mettere testa e peso sulla politica internazionale. A partire dal Medio oriente.