Pochi paesi in Europa hanno una memoria storica così acuta come l’Irlanda. Girando per l’isola si possono incontrare non solo vestigia di epoche remote, ma anche musei etnografici, segnalazioni di ogni tipo di luoghi e persone significativi nella storia irlandese. Perfino nei celebri pub, e sulle gradinate degli stadi, si possono ascoltare canti che celebrano eventi dolorosi o gloriosi di secoli fa. E in nessuna altra provincia d’Irlanda questa memoria storica è tanto viva quanto nel Nord, nell’Ulster.
È così che si può comprendere ciò che all’opinione pubblica dell’Europa continentale può sembrare inspiegabile. In questi giorni le agenzie ci hanno segnalato i gravi disordini di Belfast, il capoluogo nordirlandese, già luogo per decenni, fino agli inizi degli anni del nuovo secolo, di continue guerriglie tra le forze di polizia, l’esercito britannico, i militanti repubblicani dell’Ira (Irish Republican Army) e i paramilitari unionisti, le ultime due realtà spesso presentate approssimativamente come “cattolici” e “protestanti”. In realtà lo scontro in Irlanda del Nord non è mai stato di tipo religioso, e tantomeno una guerra civile tra irlandesi. Ciò che raramente è stato spiegato è che le sei contee irlandesi dell’Ulster che formano l’entità politico-amministrativa chiamata Northern Ireland facente parte del Regno Unito sono in realtà l’ultimo residuo di ciò che fu l’Impero britannico.
Un avamposto coloniale che fu popolato da sudditi fedelissimi della Corona britannica impiantati – a partire dal ‘600 – sulle terre sottratte agli irlandesi. Ovvio che tra le caratteristiche di questi lealisti ci dovesse essere la fede protestante, contrapposta a quella cattolica degli autoctoni irlandesi. La storia politica controversa e difficile dell’Irlanda venne segnata da numerosi tentativi di riprendersi la propria libertà, ogni volta soffocati nel sangue. Una di queste tragedie ebbe luogo nel 1690, quando l’isola fu il teatro di uno scontro epocale tra i sostenitori degli Stuart, la sfortunata dinastia cattolica scozzese che ambiva a riconquistare il trono, e il sovrano che aveva usurpato il trono stesso di Inghilterra, Scozia e Irlanda, il principe olandese Guglielmo d’Orange, portato a Londra dalla nomenclatura britannica che, piuttosto di avere un sovrano di fede cattolica, preferì uno straniero, peraltro ben manipolabile dai poteri forti di allora.
Guglielmo prevalse, e in suo onore in seguito nacque, tra i lealisti dell’Ulster, una setta di stampo massonico denominata Order of Orange con lo scopo di perpetuare i “valori” dell’anticattolicesimo e di garantire il miglior successo sociale ai suoi membri. L’Ordine esiste ancora oggi, e la giornata del “pride” orangista si celebra il 12 luglio.
È l’ostentazione (in passato sempre violenta) dell’orgoglio della causa lealista ed unionista, quella che vuole mantenere a tutti i costi l’unione delle sei contee dell’Ulster alla Gran Bretagna, come venne stabilita circa un secolo fa in seguito alla guerra anglo-irlandese, scoppiata dopo l’Insurrezione della Pasqua del 1916 seguita dalla tragedia della guerra civile 1921-23, che si concluse con la nascita del Libero Stato di Irlanda ma anche con il dramma della Partition (separazione) delle sei contee dell’Ulster che rimasero sotto la dominazione britannica.
Una dominazione che praticò a lungo un vero e proprio apartheid nei confronti dei cattolici. Questo ebbe come risposta l’azione di un partito politico fortemente identitario e repubblicano come Sinn Fein, ma anche – in particolare dopo i gravissimi fatti di sangue del 1968 contro pacifici dimostranti − la crescita di un’azione militare clandestina portata avanti dall’Ira.
La pace raggiunta negli scorsi anni, grazie alla determinante azione politica dell’allora premier britannico Tony Blair che riuscì a far dialogare e collaborare unionisti e repubblicani, è tuttavia una pace fragile: il fuoco dell’odio settario cova sempre sotto la cenere, e in alcune occasioni, come negli ultimi giorni, riesce ad esplodere con una violenza che fa sbigottire gli osservatori esterni. E il pretesto è immancabilmente fornito da questa memoria storica precisa e irremovibile che esiste in Irlanda. Entrambe le comunità, cattolica-repubblicana e protestante-unionista, hanno le loro ricorrenze da celebrare, i caduti da ricordare. Da sempre, ad esempio, il 12 luglio è una data fatidica, con grandi parate orangiste. Il governo locale dell’Irlanda del Nord, che è una “grande coalizione” che tiene insieme lo Sinn Fein con gli ultra-lealisti del partito fondato dal reverendo Ian Paisley, che si rese più volte tristemente celebre per il suo fanatismo anti-cattolico, ha dovuto istituire una commissione parlamentare apposita per valutare le manifestazioni di questo tipo, per autorizzarle, ed eventualmente per richiedere modifiche. È stato il caso, il mese scorso, della grande parata di Belfast, che da sempre muove dal quartiere di Shankill Road, covo dell’estremismo lealista, e attraversa la città, passando − come deliberata provocazione − dal quartiere cattolico di Ardoyne, una vera e propria zona-martire, oggetto costante di aggressioni settarie. Quest’anno la commissione ha proibito l’attraversamento di questo quartiere, e la risposta lealista è stata pesante: incidenti, scontri, numerosi feriti tra le forze dell’ordine.
La violenza è riesplosa ieri: il motivo sta in un’altra commemorazione storica, questa volta celebrata dalla parte repubblicana, e cioè l’anniversario dell’introduzione (9 agosto 1971) delle Leggi Speciali che permettevano l’arresto la detenzione e l’internamento di qualunque sospetto di attività anti-governativa. Fu una legge che si abbattè con estrema violenza sulla comunità cattolica, colpendo indiscriminatamente, incarcerando – spesso in condizioni disumane − moltissimi innocenti. La comunità cattolica non ha mai dimenticato. Questa manifestazione di commemorazione è stata autorizzata dalla specifica commissione, e ciò ha determinato la risposta abnormemente violenta di ieri.
Dal quartiere-fortezza dei lealisti, Shankill Road, è partita una contro-manifestazione di centinaia di persone. La polizia, che in passato era stata a lungo criticata dai cattolici per la scarsa “equidistanza” e per essere di fatto uno strumento del potere orangista, è intervenuta per far rispettare le regole del gioco, che prevedono, in caso di parate e celebrazioni, che ognuno svolga i propri “riti” senza che la controparte possa intervenire, con conseguenze facilmente immaginabili e che si sono purtroppo per lungo temo verificate. Ne è uscito quel pomeriggio da incubo che ha fatto ritornare, dopo diverso tempo, l’Irlanda sulle prime pagine dei giornali.
Un’Irlanda che ormai sembra − nella Repubblica di Dublino − aver messo da parte le passioni per le province irredente concentrandosi sulla crisi economica che la attanaglia dopo la fine degli anni d’oro della “Tigre Celtica”, e dove l’intellighentia da anni la battaglia principale la conduce contro la propria identità cattolica, cogliendo l’occasione da fatti dolorosi come la pedofilia di alcuni esponenti del clero per porre mano ad un’opera di immane auto-demolizione della propria cultura, dell’anima profonda dell’Irlanda.
In questi giorni, un paese – la Repubblica dell’Eire − dove le manifestazioni pubbliche degli ultimi mesi hanno riguardato principalmente l’introduzione dell’aborto legalizzato, inteso dai laicisti come irrinunciabile passo avanti verso la modernizzazione dell’isola, si è risvegliato rivedendo le immagini delle molotov, delle auto incendiate, dei feriti, dei lacrimogeni. Immagini che i giovani irlandesi cresciuti davanti ai pc non conoscevano, e che invece a chi ha qualche anno in più avrà rievocato i giorni del Bloody Sunday, di Bobby Sands e degli Hunger strikers, delle autoblindo e delle auto bomba. Episodi singoli, forse, che troveranno adeguata risposta, come ha promesso il capo della polizia di Belfast, ma che devono far pensare, e non solo nella bella Isola di Smeraldo.