La visita di Obama a Hiroshima è stata frettolosamente definita “storica”. Lo è simbolicamente e lo è per il carico emotivo che porta con sé. Ma non necessariamente è un momento di svolta nei rapporti internazionali. Difficile infatti scorgere elementi di drammatica novità rispetto ad una tendenza consolidata: il Pacifico è per l’America del XXI secolo ciò che l’Atlantico è stato nel secolo scorso. L’interesse di Washington per il Medio Oriente è decisamente calato e rimane solo legato al tentativo di contenere l’avanzata e il rafforzamento dello stato islamico. Per svolgere questo compito, Obama ha scelto l’Iran, che da ora in poi si occuperà di definire gli assetti geopolitici dell’area. L’Europa è un alleato stanco e pigro e tutti ormai a Washington, democratici o repubblicani, hanno smesso di considerare l’asse transatlantico come una priorità.
In Asia si giocano gli equilibri globali e di sicurezza dei prossimi decenni. E Obama, nel lasciare la Casa Bianca idealmente a Hillary Clinton — cosa affatto scontata — vuole rimarcare che è lì che si concentreranno sforzi e attenzione nel prossimo futuro.
Da Hiroshima Obama ha lanciato alcuni messaggi: alla Corea del Nord, cui di fatto intima di lasciar cadere velleità atomiche; alla Cina, cui lancia il segnale che l’alleato giapponese non sarà lasciato solo. E a tutti quei governi dell’area che in passato hanno avuto relazioni problematiche con gli Usa ma che oggi possono trovare nuove sponde di collaborazione. È accaduto qualche giorno fa in Vietnam, dove si è aperta una nuova stagione di relazioni diplomatiche e commerciali.
Idealmente, inoltre, è come se Obama chiudesse a Hiroshima un ciclo ideale, iniziato con il celebre discorso a Praga sulla minaccia delle armi nucleari e chiuso nella città su cui gli Usa sganciarono la bomba atomica.
Se queste sono le motivazioni del viaggio, perché, ci si chiede, non ha voluto chiedere scusa per quel gesto? La risposta sta nella campagna elettorale che ormai si è infiammata Oltreoceano. In questa fase così delicata e cruciale, Obama non può dare un’impressione di arrendevolezza. È pur sempre il Commander in Chief, cui è richiesto di mostrare i muscoli quando necessario. Un suo gesto plateale di scuse avrebbe probabilmente trasferito l’idea di una leadership fiacca, remissiva, preoccupata. Cosa che in questa fase rischia di penalizzare — probabilmente in maniera definitiva — Hillary Clinton e la sua corsa a ostacoli verso la nomination democratica.
Trump non avrebbe perso l’occasione per accusare Obama e i Clinton — che tende ad associare, non senza ragioni — di indebolire l’immagine e lo standing dell’America. Lui, il cowboy, non avrebbe mai chiesto scusa. E in Giappone, in questi giorni, si discute del G7 del prossimo anno. Al quale potrebbe partecipare Donald Trump.