“I know a Dreamer”: conosco una Sognatrice. Fu una mia studentessa, peruviana, la quale a 17 anni, alunna liceale in una distinta scuola privata del Connecticut, doveva pensare a quale università scegliere, come le sue compagne. Durante questo penultimo anno, gli studenti delle nostre privilegiate accademie statunitensi devono tutti passare attraverso un rito che è generalmente un’entusiasmante sfida, la cui conclusione è quasi sempre positiva. L’ansia che il processo richiede nella tenace competizione per accedere ai migliori atenei del paese si accompagna all’euforia di sognare un futuro brillante. La mia Sognatrice, arrivata da piccola dall’America Latina, affrontava invece un futuro molto diverso e rischioso. Sognava come le altre ma era un sogno a lei proibito, non concesso: i suoi genitori erano immigrati dal Perù ma non autorizzati a rimanere.
Da 16 anni negli Stati Uniti si cerca di far approvare una legge — il Dream Act — per legalizzare e proteggere i giovanissimi portati illegalmente nel paese dalla famiglia. È un acronimo per: Development, Relief, and Education for Alien Minor (Sviluppo, assistenza e istruzione per i minorenni alieni — e traduco letteralmente quest’ultima parola, “alieni”, per tutto il suo peso culturalmente fobico verso gli stranieri che essa comporta). Acronimo che sta per Sogno, e chi ne aderisce si auto-proclama Dreamer: Sognatore.
I dreamers partecipano emozionati e angosciati in questi giorni alle dimostrazioni nelle città degli stati dove si erano sentiti accolti: California, Texas, Illinois, New York, Florida, dove i loro numeri sono altissimi, e in tante altre. Durante la presidenza di Obama, si arrivò ad un compromesso chiamato Daca, Deferred Action for Childhood Arrivals, che allontanava il pericolo dell’immediata deportazione con un permesso di residenza e di lavoro per due o tre anni, possibilmente rinnovabili. I genitori però rimanevano alieni, e non pochi si preoccuparono cinque anni fa che chi si registrava potesse più avanti correre un maggiore rischio esponendosi. Molti rimasero nell’anonimato legale.
In questo momento sui giornali troviamo dettagliate informazioni su queste leggi, le varie proposte e i suoi fallimenti. Sei anni fa, quando la mia studentessa mi chiese di assisterla perché i suoi genitori, che non parlavano inglese, volevano trovare una soluzione sicura per lei, io, insegnante liceale, non ero al corrente di questi casi e non sapevo che lei era undocumented né che, al pari di tante altre come lei, poteva essere ammessa alle scuole grazie a questo provvedimento chiamato Daca. Era una sorta di segretezza che voleva tenere al riparo questi giovani. Ora molti di loro sono allo scoperto, così come le strategie economiche che stavano dietro alle tattiche politiche. Succede qualcosa di nuovo da quando l’attuale presidente ha “alienato” i giornalisti: si danno da fare perché venga tutto fuori, come mai prima. Ben venga!
Si parla ora di 800mila persone che vivono l’incubo della deportazione per essersi esposte firmando il programma Daca, da quando il presidente, a partire dall’altro ieri, ha dato l’ordine di “mettere in ordine” questo disordine causato dalla precedente presidenza.
Lasciando da parte le rivalità politiche e il caos di un governo e di una nazione che vive una crisi storica, torno alla mia giovane, la quale scelse allora, e molto saggiamente, l’Australia e l’università di Sydney. L’accordo era particolare (come sono sempre tutti gli accordi fra i vari paesi): dopo tre anni nel nuovo paese che la ospitava, poteva ottenere un Visto per tornare a trovare i genitori negli Stati Uniti. Non lo fece; non ha ancora rivisto la famiglia. Nel frattempo si è laureata, ha un buon lavoro e presto si sposerà. È al sicuro, soprattutto in questo momento di profonda incertezza e instabilità, dove ogni giorno la tensione esaspera i sentimenti dei cittadini di una nazione che aveva creduto, forse, di essere al di sopra della storia.