Mi tornano in mente i vecchi film di cowboys degli anni Cinquanta mentre seguo quello che succede in questi giorni, questi mesi e questi recenti anni di vorticosa e crescente violenza, esteriore ed interiore, negli Stati Uniti.
Ho avuto occasione quest’estate di passare alcune settimane spostandomi fra tre stati che, con gli amici, ho chiamato del Far West: Wyoming, Dakota e Montana. Gli ultimi due si trovano al confine con il Canada e tutti sono come schiacciati fra la East Coast (di cui lì ne parlano come se fosse un paese nemico), il Midwest e il West (terre che per loro non sembrano essere così rilevanti). Sono le lande dei vasti terreni per il bestiame, pecore o mucche, degli sterminati ranches il cui confine è un cielo infinito, da proteggere con collezioni di fucili e pistole tramandate con fierezza dai nonni e dai bisnonni. È quella classe emigrata di fine ottocento, di origine tedesca o nordeuropea, che trova oggi in Trump il suo eroe.
Mi ha colpito osservare che in quei tre stati è come se si fosse fermato il tempo: nel museo, minuto e ingenuo, di una cittadina dal nome Spearfish, si entra e si vede subito la figura in cartone ad altezza naturale di John Wayne… ecco che realtà e finzione trovano la loro mitologia, insomma la loro identità. Non distante c’è il paesino di Deadwood, quasi intatto, con il saloon dove è stato assassinato “Wild Bill” Hickok e il bordello dove stavano le prostitute che, guarda caso, Calamity Jane visitava ogni sera. Ho fatto l’errore di commentare che allora Calamity doveva essere gay, frase troppo newyorkese che è caduta in un totale silenzio. La gentile signora che portava questa turista italiana (preferiva riconoscermi come europea piuttosto che come chi aveva vissuto una mezza vita a New York) raccontava tutto ciò con gioia e orgoglio come chi, in Italia, mostra con orgoglio, che so… i canali di Venezia! Ero seduta nel retro della macchina, accanto ad una pistola che era dentro una fondina in pelle scolpita secondo lo stile più elegantemente rappresentativo della vita da cowboy, e ciò mi rese inquieta fino ad incontrare il coraggio di domandare alla gentilissima ospite se fosse sua quell’arma.
No — rispose — è di mio nipotino di sei anni…
Poi aggiunse: — Ma è un giocattolo…
Un giocattolo così verosimile che soltanto dopo quella precisazione la sottoscritta tirò il fiato.
Mi tornano in mente, dicevo, i vecchi film degli anni Cinquanta quando, giovanissima e appena approdata nell’America del Nord, guardavo con orrore le scene ripetutamente ricreate in televisione di un Far West, dove dopo ogni omicidio si formava una feroce orda in cerca di immediata giustizia: la “lynching mob”.
E poi era ancora più terrificante per me vedere gli uomini salire in gruppo sui cavalli per il “posse” che, carichi di fucili e voglia di vendetta, si lanciavano in galoppo alla ricerca di chi era riuscito a evadere la “giustizia”. Ecco cosa mi viene in mente pensando a ciò che succede a Charlotte e a Baltimore.
Forse il tempo si è fermato in quell’ottocento nordamericano, che nella finzione identitaria di questa nazione doveva essere eroica ma che poi nella sua realtà quotidiana era durissima.
E non si è solo fermato in quei tre stati, ma nell’inconscio collettivo di troppi cittadini di tante città, in questa agonizzante e disperata America.