Il 22 maggio i rappresentanti libanesi presenti a Doha, in Qatar, hanno siglato un accordo che ha aperto una pagina nuova nello sviluppo della crisi libanese. Alcuni lo considerano il punto di partenza di una tregua abbastanza durevole per poter innescare una sia pur piccola riforma nel paese e migliorare una situazione economica disastrosa. La cosa sicura, tuttavia, è che siamo ancora lontani da una soluzione, vista la crisi che interessa l’intera regione e che continua a influenzare direttamente la scena libanese.
Possiamo considerare che l’accordo di Doha è stato possibile perché l’opposizione, di fronte agli esponenti del governo, ha saputo mantenere le sue posizioni, in un momento in cui un intervento americano nella regione si rivelava impossibile e si parlava anche di un negoziato tra Siria e Israele mediato dalla Turchia: per concludere, un momento propizio per cambiare lo scenario (quello risultante dall’operazione del 13 maggio scorso) e trovare il compromesso tra i belligeranti libanesi. Così la coalizione del 14 marzo (il movimento di Saad Hariri, figlio del premier ucciso, ndr.) ha finito per accettare la partecipazione dell’opposizione al governo “di unità nazionale”, ha accettato le richieste di cambiamento della legge elettorale per garantire la rappresentatività parlamentare riguardante soprattutto i deputati cristiani, per arrivare infine il 25 maggio all’elezione consensuale del presidente, il generale Michel Suleiman.
Quali sono le grandi sfide attuali e future? Eccole, in sintesi.
Si tratta innanzitutto di riuscire a trasformare il compromesso di Doha in un’intesa vera e solida tra i differenti partiti libanesi; cosa che sembra però ancora lontana. La maggioranza del 14 marzo, che si considera sconfitta, ha insistito per rinominare Fouad Siniora alla testa del nuovo governo, una decisione che sembra in contraddizione con la dinamica dell’intesa. Le informazioni di oggi parlano di un intervento americano e saudita che ha spinto in questa direzione, per non rinunciare al primo ministro che è stato un loro fedele e tenace alleato. «Con un presidente consensuale – reclama l’opposizione a sua volta – abbiamo bisogno di un primo ministro che sia esito anch’egli di un consenso».
Si aspetta, come segno di un nuovo corso, la formazione di un Consiglio dei ministri che ridia fiducia ai libanesi per la qualità personale dei ministri e per i ministeri assegnati all’opposizione, precisamente ai cristiani, da molto tempo marginalizzati.
I libanesi vogliono che sulla scena libanese venga ristabilito un clima di sicurezza. Temono enormemente il ritorno della violenza, che non è ancora cessata, soprattutto tra il partito socialista e la Corrente del Futuro da una parte e i simpatizzanti dell’Hezbollah dall’altra. Allo stesso modo la presenza in Libano di cellule terroriste di Al Qua’eda (militanti sunniti che collaborano con altre organizzazioni come Fteh al Islam), situate nel nord del paese e nei campi palestinesi, lasciano prevedere sorprese, avendo come obiettivo i sunniti proamericani e la Finul (Forze interinali delle Nazioni unite in Libano, ndr.) nel sud del Libano.
Poi le armi di Hezbollah: il nuovo presidente ha promesso nel suo discorso di arrivare all’elaborazione di una strategia nazionale di difesa che potrebbe risolvere pacificamente e correttamente il problema. Si tratta innanzitutto di trovare una soluzione giusta all’occupazione israeliana delle Fattorie di Chebaa nel sud del Libano.
Ma la questione più grave, il cuore della crisi libanese, resta la sorte di 500mila palestinesi presenti in Libano, armati senza alcun controllo da parte dell’esercito libanese. L’opposizione accusa la maggioranza di essere implicata nel piano israeliano-americano che mira a far stabilire i palestinesi nel Libano (piano che data dagli anni ’70), negando così, implicitamente, il loro diritto di tornare in Palestina. Questa situazione converrebbe ai sunniti che sono al potere, poiché i palestinesi che sono in Libano sono a maggioranza sunnita. Questo fatto suscita però il sospetto degli sciiti, precisamente di Hezbollah, che vi vede un pericolo per l’equilibrio demografico intercomunitario libanese; preoccupazione condivisa con la comunità cristiana. È superfluo segnalare la dimensione internazionale di questo problema, sul quale analisti bene informati hanno fatto menzione di una sorta di alleanza tra Usa, Israele e i grandi regimi sunniti della regione. Senza dimenticare l’interesse vitale della Giordania a favorire quella soluzione, l’unica che può garantire la continuità del Regno hachemita.
Questo panorama riassuntivo ci mostra la complessità della situazione libanese e le grandi difficoltà che deve affrontare il nuovo potere che nascerà nel prossimo futuro. I tentativi di intesa regionale ci permetteranno di riuscirvi? Riuscirà la comunità internazionale a gestire con giustizia i conflitti che stanno martoriando il paese?