Furono le elezioni del gennaio 2006 a gettare la Palestina in una guerra civile senza precedenti. La vittoria di Hamas, considerato dai paesi occidentali niente più che una organizzazione terroristica, portò nel giro di pochi mesi a uno scontro armato con Al-Fatah, la vecchia organizzazione di Arafat nota anche e soprattutto come Olp. Hamas prese il potere politico e civile lasciando ad Al-Fatah l’apparato di sicurezza interno, ma nei mesi successivi ci fu una vera escalation con numerosi omicidi di leader opposti: fra il gennaio 2006 e il maggio 2007 si contarono oltre 600 uccisioni. Seguì, dopo la battaglia di Gaza, l’estromissione di Hamas da tutte le cariche governative e una debole tregua, poi nuove elezioni contestate, fino all’improvvisa svolta di questi giorni e cioè la firma di un accordo di unità nazionale fra le due organizzazioni, che inevitabilmente apre a scenari inediti. La domanda che tutti si fanno, e che ilsussidiario.net ha girato a Giovanni Minoli, è se Al-Fatah diventerà un gruppo estremistico o se Hamas finalmente diventerà un’organizzazione moderata. “Siamo in un momento storico di grande transizione” ha detto Minoli.
Prima di entrare nel dettaglio del nuovo accordo, le chiediamo che peso hanno oggi Hamas e Al-Fatah in Palestina, dopo anni di guerra civile.
Innegabilmente rappresentano una bella fetta di popolazione palestinese pur nella differenza delle reciproche sensibilità. Hamas detiene una certa maggioranza nella cosiddetta striscia di Gaza, mentre storicamente Al-Fatah ha sempre contato di più nei territori della Cisgiordania.
Che significato ha questo accordo definito di riconciliazione nazionale?
Credo che sia un accordo positivo. Certo, rende più difficile il negoziato con Israele per ben noti motivi, ma paradossalmente più possibile nel caso riuscisse a decollare.
Perché, in che senso?
Perché l’unità rende possibile negoziati e discussioni più realistiche ed efficaci. Non credo che prevarrà l’unità della lotta, come gli equilibri del Medio Oriente sono da anni in forte movimento, allo stesso modo penso che anche la situazione della Palestina si manterrà in movimento. A partire da una unità del popolo attraverso qualche forma di accordo, ritengo però ch possano nascere solo sviluppi positivi.
Ovviamente tutti si domandano se questo accordo porterà fine all’uso della forza e anche del terrorismo da parte di Hamas.
Se ci sarà una cessazione dell’iniziativa militare non lo so, ma certamente un accordo tra un gruppo definito tra virgolette terrorista e un altro gruppo definito moderato non può portare a un aumento delle attività militari e violente. Penso che all’interno di questo accordo, per quanto possa essere difficile, ci sia un obiettivo comune.
Il rilancio di negoziati? Israele ha però immediatamente criticato l’accordo, dicendo che Al-Fatah invece di fare la pace con loro l’ha fatta con Hamas. E ha sospeso i colloqui.
E’ ovvio che Israele faccia questo: aveva e ha tutto l’interesse che i due gruppi rimanessero divisi, è la logica del divide et impera. Certo Israele oggi è spiazzato, si trova di fronte a una doppia politica americana che lo lascia intimorito e dubbioso vista anche l’apertura americana verso l’Iran. C’è un evidente disimpegno degli Stati Uniti che è nell’aria da tanto tempo, e non a caso i rapporti tra Israele e Russia sono già avanzati di molto.
Perché gli Stati Uniti hanno preso questa direzione?
In America ha prevalso la corrente di pensiero neoisolazionista, di per sé sempre molto forte, che oltre alla propria autonomia ora guarda alla ristrutturazione del mondo del lavoro e al rilancio delle industrie. La crisi ha accresciuto l’isolazionismo americano.
Il Medio Oriente al momento è quanto di più caotico si possa pensare, con la crisi siriana che sta ribaltando un po’ tutto, che prospettive vede?
Il Medio Oriente è sempre stata una scena di interventi internazionali delle maggiori potenze mondiali. Tutti i cambiamenti sono problematici e così lo è questo attuale, che apre scenari ancora non definiti. Gli equilibri di una volta – e lo si è visto con l’alleanza tra papa Francesco e Putin che hanno portato Obama a fare marcia indietro sui bombardamenti in Siria – sono saltati. Questo cambia lo scenario. Lo vediamo anche in Crimea e Ucraina, dove si osserva come l’avanzata russa non sia contrastata da nessuno perché la linea di Putin è una prospettiva a cui nessuno in occidente aveva pensato e si era preparato.