Il Logan Act è una cosa seria assi seria. È alle radici della definizione dello state building nordamericano già nel 1799, quando la Guerra di indipendenza contro inglesi e francesi aveva creato la coscienza nazionale di un popolo prima che di uno Stato. Ma quel popolo si faceva Stato grazie all’intelligenza dei Padri fondatori, che capirono subito da sapienti interpreti di ciò che di buono veniva dalla Francia rivoluzionaria che la divisione dei poteri si costruiva sulla crescita di un apparato burocratico legal-razionale anche in politica estera. Quindi, nessun cittadino doveva interferire nelle questioni di politica estera, perché quelle questioni erano affidate solo all’amministrazione e solo a essa. Nessun patrimonialismo e nessun conflitto di interessi: solo i delegati dal potere legislativo potevano decidere della sicurezza nazionale.
È questo che si rimprovera a Michael Flynn: non doveva parlare all’Ambasciatore russo all’Onu Sergey Kislyak delle sanzioni contro la Russia e, soprattutto, intercettate dall’intelligence quelle conversazioni, non doveva mentire ai servizi di sicurezza e ancor di più al Vicepresidente Mike Pence.
È una catena di relazioni pericolose. Già Paul Manafort, primo regista della campagna elettorale di Donald Trump, aveva dovuto abbandonare per i suoi rapporti con il Presidente ucraino filo-russo Viktor Yanukovich. E anche Carter Page, già foreign policy advisor di Trump, ha dovuto dimettersi perché discuteva con Igor Sechin di sanzioni e petrolio.
È stato facie per Mark Warner, capo del comitato per l’intelligence al Congresso, invocare la minacciata sicurezza nazionale e richiedere un’inchiesta parlamentare. L’establishment reagisce e di nuovo la miccia è la stessa del Watergate: il Washington Post, dove la grandissima professionalità si unisce alla lealtà democratica.
Trump è in pericolo? Ossia, la macchina dell’impeachment si sta mettendo in moto con una triangolazione tra alta finanza, servizi di sicurezza e grandi intellettuali pronti a combattere per la tradizione liberal-Usa? Amartya Sen ha appena scritto sul New Yorker Review of Books un bell’articolo molto dotto in cui propone una riforma della legge elettorale, ricordando i 2 milioni di voti che di fatto Hillary Clinton ha ottenuto in più di Trump.
Insomma, la transizione non sarà facile. La politica estera registra mutamenti rispetto al programma per quel che concerne Nato e Cina e anche rispetto all’Ue. Ma la partita si gioca nel girone del potere di fatto della poliarchia e qui si sa che la battaglia sarà decisiva per le sorti del mondo intero. Per l’Italia tutto ciò è vitale perché siamo nel Mediterraneo. La Russia ha le forze navali e aeree migliori e il nostro problema non sono solo le sanzioni, ma il fatto che se vorremo giocare un ruolo nella ricostruzione mesopotamica e nordafricana il rapporto con la Russia sarà decisivo per bilanciare l’ostilità franco-tedesca e inglese.
Occupiamocene e non facciamoci distrarre da piccole schermaglie senza prospettive.