La battaglia che infuria nella città di Sirte da più di una settimana è la più evidente manifestazione del fallimento della politica di mediazione del pur volenteroso e tenace Bernardino Léon ma soprattutto della ingiustificata e ingiustificabile impasse della comunità internazionale. Ce lo conferma, nel caso ce ne fosse ancora bisogno, la reazione dei governi di Francia, Germania, Italia, Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti che, dopo i massacri che continuano ad essere perpetrati a Sirte, si sono limitati, oramai anacronisticamente, a condannare gli atti barbarici che i terroristi affiliati all’Isis stanno portando avanti nella città libica ostinandosi, sottovoce, a “raccomandare” per l’ennesima volta alle fazioni locali di impegnarsi per la creazione di un “governo di concordia nazionale che, in cooperazione con la comunità internazionale, possa garantire la sicurezza nel paese contro i gruppi di estremisti violenti che cercano di destabilizzarlo”. Ma la battaglia infuria e dinanzi alle cifre che parlano di più di 200 morti e di molte centinaia di feriti – ma i numeri sono destinati a salire – quelle delle cancellerie occidentali sembrano, ancora una volta, parole al vento.
Da parte italiana non sono giunte certo dichiarazioni più incisive. Gentiloni si è limitato a rammentare, in una recente intervista, che in Libia “o si chiude in poche settimane o ci troveremo con un’altra Somalia a due passi dalla costa”. Ma oramai la tesi del rischio di somalizzazione della Libia sembra solo un abusato mantra ad uso e consumo dei politici. La somalizzazione della Libia non è un rischio, è uno stato di fatto, un’evidenza e nascondersi dietro a dichiarazioni e comunicati fumosi non servirà certo a rendere il boccone meno amaro.
Non servono molti giri di parole né grossi sforzi di immaginazione per comprendere che, oramai, la litania della necessità di “unità” nel “non Stato” libico è più un esercizio retorico che un’opzione realmente praticabile. E questo non solo perché in Libia ci sono due governi, quello di Tripoli e quello di Tobruk che, almeno per ora, non hanno intenzione di accordarsi per una qualche forma di politica comune ma soprattutto perché, anche se questa ipotesi dovesse avverarsi, non basterebbe certo per creare unità in un failed State in cui i due governi rappresentano solo due attori all’interno di un frammentato risiko di altri protagonisti e altre comparse che si muovono in uno scenario di equilibri estremamente mutevoli e magmatici.
Le difficoltà, dunque, sono molteplici. In primo luogo, per riportare la situazione a una qualche forma di controllo, sarebbe necessario trovare un accordo tra i due governi; cosa che, con buona pace di Bernardino Léon, sembra al momento piuttosto difficile da realizzare.
In secondo luogo, una volta trovato questo eventuale accordo, sarebbe necessario gestire molti dei gruppi e delle milizie che gravitano in territorio libico – più di mille se parliamo di milizie, più di un centinaio se parliamo di tribù – alcune delle quali governano stabilmente su porzioni di territorio e non si riconoscono in nessuno dei due governi. Infine, realizzate queste due precondizioni, bisognerebbe trovare la chiave di volta per la tanto agognata “cooperazione con la comunità internazionale” funzionale alla lotta al califfato e, soprattutto in un’ottica europea, a tentare di porre un freno alla tratta di esseri umani perpetrata dagli scafisti.
Ma andiamo per gradi. L’ultimo tentativo di accordo tra Tobruk e Tripoli risale al vertice dello scorso giugno a Skheirat, in Marocco, quando l’ennesimo no di una delle due parti – e più nello specifico del Governo di al-Thani – aveva decretato l’ennesimo fallimento della tanto agognata politica di unità nazionale. Da qual momento i due governi hanno continuato ad anteporre la necessità di farsi la guerra all’idea di una qualche coalizione comune contro Daesh. In altre parole le milizie del generale Haftar piuttosto che proseguire nella lotta agli jiadisti affiliati a Isis hanno preferito continuare a “fare le scaramucce” alla Fratellanza Musulmana di Tripoli. E viceversa. Insomma la reciproca ostilità è stata molto più forte della volontà di combattere i tagliagole, per la gioia delle milizie affiliate al califfato che, negli ultimi mesi, sono avanzate in territorio libico senza grossi ostacoli se non alcuni gruppi di dubbia natura, tra cui i miliziani di Ansar al-Sharia, organizzazione dichiaratamente jiadista che, per molti versi, non si distanzia molto dal fondamentalismo feroce di Isis se non pe ragioni dogmatiche e tribali.
E veniamo così al secondo punto. Nel puzzle della ex Jamahiriya non ci sono solo i due governi di Tripoli e Tobruk a contendersi il potere, ma anche una miriade di formazioni che non si riconoscono né nella linea di al-Thani né in quella della Fratellanza di Tripoli e che vanno a comporre il variegato panorama jihadista in Libia. Oltre a Ansar al-Sharia molti altri gruppi salafiti-jihadisti godono di un “santuario” in territorio libico – solo per fare alcuni nomi il Jamal Network Muhammad o al Qaida nel Maghreb Islamico – senza dimenticare le varie milizie come, ad esempio, Alba Libica. Alcuni di questi gruppi che, come nel caso di Fajr Libya, si sono mostrati a volte allineati con il governo di Tripoli, non accetterebbero certo senza colpo ferire un accordo con il nemico giurato. Per dirla in altri termini, se il governo islamico di Tripoli addivenisse a qualche accordo con quello di Tobruk è dato ipotizzare che molti dei gruppi vicini ad alGhweil si allontanerebbero dalle sue posizioni per abbracciare, magari, gruppi più estremistici.
Tanto basta a confermare le fortissime tensioni che, anche dall’interno, dividono i vari fronti libici e tali spinte endogene, senza una soluzione adeguata, sarebbero senza dubbio acuite dalla creazione di un governo di unità nazionale.
Infine per quanto concerne l’ultimo interrogativo, ossia se davvero l’unità della Libia così come ipotizzata dall’inviato dell’Onu sia, come da più parti preconizzato, la precondizione fondamentale per una cooperazione funzionale anche alla risoluzione dei problemi legati alla questione dell’emergenza immigrazione, vanno operate alcune considerazioni. In primo luogo il piano a cui sta lavorando Léon prevede un accordo tra 24 fazioni libiche, 20 lo hanno già siglato ma mancano ancora le autorità di Tripoli e dunque se cantassimo vittoria ora sarebbe come fare i conti senza l’oste. Inoltre il piano prevede per il nuovo governo una struttura molto complessa ed articolata: un premier e due vice, anime dei due governi, ma un solo parlamento (quello di Tobruk). Ora, se quest’ultima opzione, che per ora rende inaccettabile la proposta da parte di Tripoli, venisse per qualche motivo accolta, il nuovo governo della Libia “unitaria” consisterebbe, in realtà, in una serie di pesi e contrappesi costruiti su equilibri precari, con il rischio di stabilire sulla carta un assetto che difficilmente reggerebbe ad un’azione politica comune. Detta in altri termini, è rischioso credere che un’azione internazionale avallata da un governo così formato potrebbe godere a lungo di legittimità, poiché le varie anime che lo compongono potrebbero dividersi, di nuovo, alla prima “incomprensione”.
Insomma, se da un lato il lavoro fin qui svolto da Bernardino Léon per la ricerca di una sorta di “nuova pace dei coraggiosi” è sicuramente lodevole, dall’altro il rapido svolgersi degli eventi e la miriade di attori in campo richiederebbe, forse, di prendere in considerazione l’ipotesi che la strada dell’unità per quanto auspicabile non sia al momento praticabile o, arrivati a questo punto, non risolutiva; e attendere oltre rischierebbe di ingrossare ancora di più il pantano libico.