Nonostante non sia imposta da alcuna regola, la soluzione della creazione di due Stati — quello israeliano accanto ad una nuova entità statale palestinese — è certamente quella maggiormente conforme al diritto internazionale.
Essa è implicita nell’ampio riconoscimento dello Stato palestinese da parte di vari Stati, fra i quali alcuni Stati occidentali, e di varie organizzazioni internazionali. Come è noto, anche l’Assemblea generale ha indicato, nel 2012, che la Palestina costituisce uno Stato osservatore non membro delle Nazioni Unite. La soluzione dei due Stati costituisce, inoltre, quella maggiormente conforme al diritto di autodeterminazione del popolo palestinese, oggi pressoché universalmente riconosciuto sul piano internazionale.
Questa soluzione appare inoltre, allo stato attuale, quella che meglio realizzerebbe l’esigenza di assicurare un assetto geopolitico stabile nella regione, depotenziando gli opposti estremismi, sia politici che religiosi: da un lato quello delle organizzazioni radicali palestinesi, che rifiutano il riconoscimento di Israele; dall’altro, il perdurante sogno della Grande Israele, ben radicato nella cultura politica israeliana. E la realizzazione di tale disegno potrebbe contribuire in misura non indifferente a disinnescare le tensioni in tutta l’area mediorientale; indubbiamente la più instabile del pianeta.
Tutte queste ragioni dovrebbero indurre qualsiasi persona dotata di buon senso a fare di tutto per realizzare un progetto che ha avuto anche il supporto del Consiglio di sicurezza; da ultimo, nella risoluzione 2334 del 23 dicembre 2016, con la quale è calato il sipario sulla politica estera del presidente uscente Obama.
E tuttavia, a dispetto della sua intrinseca ragionevolezza, gli avversari della soluzione dei due Stati non mancano. Non stupisce che fra essi si annoverano gli estremisti religiosi di ambedue le parti in conflitto. Sorprende molto di più l’ostilità di consistenti parti dell’establishment israeliano, espressa da ultimo, ma con molto clamore, dal presidente degli Stati Uniti, Trump.
Non vi sono, difatti, alternative credibili a tale soluzione. L’idea, talvolta avanzata, di una federazione fra due entità — una israeliana e una palestinese —, autonome ma non indipendenti, fa sorridere per l’assoluta mancanza di realismo. L’idea di un unico Stato, verosimilmente a dominanza israeliana, comporterebbe necessariamente l’imposizione di uno status politico limitato per la popolazione palestinese: una sorta di apartheid più o meno mascherato; difficilmente realizzabile nel mondo contemporaneo.
Ma è davvero credibile che l’opposizione alla soluzione dei due Stati sia solo frutto di estremismo o di dilettantismo? La politica di strisciante colonizzazione di parti dei territori occupati sembra suggerire la possibilità di una terza opzione, fondata su un espansionismo israeliano tendente ad annettere parti significative dei territori occupati, riducendo progressivamente, fino ad annullare, la limitata forma di autogoverno palestinese.
Si tratterebbe, però, di una soluzione manifestamente contraria al diritto internazionale, che accentuerebbe ulteriormente l’isolamento israeliano nonché le tensioni nell’area e nell’intera regione.
È possibile che questa linea politica sconsiderata sia perseguita silenziosamente dall’attuale esecutivo israeliano, che ha alacremente lavorato negli ultimi anni contro la soluzione dei due Stati, sostenuta da una coalizione parlamentare ispirata dalla destra religiosa e tenuta insieme dalla paura e non certo da una coerente e illuminata strategia politica a lungo termine.
È molto meno comprensibile che questa possa essere considerata come un’alternativa credibile dall’amministrazione statunitense; a meno di non ritenere, in corrispondenza all’attuale tendenza isolazionista, che il benessere e la sicurezza degli Stati Uniti siano variabili del tutto indipendenti da ciò che avviene nel resto del mondo.