I leader del G8 in corso nell’Irlanda del Nord hanno cercato di superare le differenze dei loro punti di vista sulla Siria. Nonostante il fatto che Russia e Stati Uniti appoggino rispettivamente Assad e i ribelli, ci si aspettava comunque una dichiarazione congiunta degli Stati partecipanti al summit. Il documento avrebbe dovuto menzionare la proposta di una conferenza di pace a Ginevra, e maggiore accesso agli aiuti umanitari. Ilsussidiario.net ha intervistato Germano Dottori, esperto di studi strategici presso Limes.
Che cosa si sono veramente detti i grandi della Terra per quanto riguarda la Siria?
Nulla di straordinario, probabilmente. Sostanzialmente il G8 è una “Messa cantata”, in cui ciascuno ha ripetuto ad uso e consumo dell’opinione pubblica interna ed internazionale il proprio punto di vista sulla vicenda. Non era quella la sede in cui poteva essere risolta la questione, ammesso che ce ne sia una.
E qual è la sede in cui può essere risolta?
E’ molto difficile da stabilire. C’è un reticolo di relazioni diplomatiche bilaterali che fa perno sugli Stati Uniti. Nell’ambito delle negoziazioni e delle trattative che gli Americani saranno in grado di avviare, in particolare con i russi, avrebbe potuto essere non dico individuata una soluzione, ma quantomeno inquadrato il problema. La guerra di Siria del resto non sarà risolta né oggi né domani, né in un arco di tempo prevedibilmente breve, perché Assad al momento sta vincendo sul campo. Quando c’è una parte che prevale piuttosto nettamente ed è molto più forte di quella che la sta sfidando, è ben difficile portarla al tavolo delle trattative. Non a caso si cerca d’intensificare l’efficacia dell’azione di contrasto dei ribelli, per ristabilire se non un equilibrio quantomeno una capacità di resistenza più efficace.
Per quali ragioni Assad sta vincendo?
Il regime al potere a Damasco gode di una base di consenso, e non è affatto vero che si tratti di una cricca di personalità isolate. In realtà c’è una parte del Paese che gli va dietro, come le minoranze confessionali alawite e cristiane. Ci sono però anche elementi della maggioranza sunnita che dal regime di Assad hanno tratto grandi vantaggi. La deriva marcatamente islamista emersa nelle fila della resistenza armata è un altro fattore da considerare, perchè spaventando molti “moderati” ha permesso di consolidare il regime. Inoltre, mentre i ribelli non hanno un’organizzazione coesa, Assad dispone di un Esercito regolare rimasto abbastanza solido. Composto truppe equipaggiate in vista di un confronto con una potenza militare del calibro di Israele e comandate da esponenti provenienti dalle minoranze più strettamente collegate agli Assad. Non c’è quindi da stupirsi che abbia dimostrato una capacità di resistenza e di controllo sul territorio significativa.
Quali sono gli interessi in gioco della Russia in Siria?
La Russia sta adoprandosi per arrestare la propagazione della Primavera araba. Fermare i ribelli in Siria, dal punto di vista di Mosca significa difendere la stabilità del Caucaso. E’ quindi in gioco per la Russia un interesse vitale: l’insurrezione non deve ottenere un successo completo. C’è inoltre la volontà di marcare il punto dopo quanto è successo in Libia, quando l’astensione della Russia sulla Risoluzione Onu che avrebbe permesso di attaccare Gheddafi venne concessa dietro la promessa che nulla di simile sarebbe stato fatto ad Assad. Di fronte al montare delle pressioni nei confronti di Damasco, la Russia ha ritenuto opportuno intralciare il processo tendente a provocarne il rovesciamento.
A che cosa mirano invece gli Stati Uniti?
Gli Stati Uniti non vogliono essere tirati per i capelli in un conflitto dagli esiti quanto mai incerti, soprattutto per l’eventuale dopo-intervento. L’America sta gestendo il conflitto siriano con l’obiettivo di ristabilire un equilibrio di potenza regionale tale che dalla conclusione del conflitto non possa emergere alcuno Stato egemone a livello regionale. Non la Turchia, non l’Arabia Saudita e non l’Iran. L’ideale per gli Stati Uniti sarebbe una situazione in cui questi Paesi si bilanciano reciprocamente.
Quindi alla fine in Siria prevarrà chi avrà le armi più potenti, e non invece una soluzione politica?
Non è esattamente così. La forza è sempre uno strumento della politica e nessun negoziato può prescindere dalla realtà del terreno. Sarebbe ora che anche noi italiani iniziassimo a familiarizzarci con la grammatica dell’uso della forza e con il modo in cui la forza viene impiegata dalla politica. E’ un’assurdità quella che si legge o si ascolta in tanti commenti, che contrappongono la soluzione politica a quella militare nei conflitti. E’ un non senso. Nessun conflitto, infatti, è risolto militarmente. Alla fine occorre che intervenga la politica. Le soluzioni dei conflitti sono quindi sempre politiche, cambiano soltanto le modalità attraverso le quali vengono raggiunte, nel senso che possono occorrere dosi di forza maggiori o minori a seconda dei casi. Le armi, in qualche modo, preparano una soluzione politica, anche se bisogna vedere quale sarà nel caso specifico e quanto tempo ci vorrà per ottenerla. In Bosnia sono stati necessari diversi anni prima che la situazione sul terreno producesse un equilibrio e consentisse alla politica di raggiungere un compromesso accettabile per tutti, quello di Dayton che consente ancora oggi alla Bosnia di vivere in pace.
Qual è il significato politico dell’uccisione del fratello di Nasrallah in Siria?
Si sapeva che Hezbollah aveva speso delle cospicue risorse umane e materiali nella battaglia per Qusayr, il prezzo pagato è stato ancora più alto di quello che si immaginava. Non passa giorno in Libano in cui non siano celebrati funerali per i caduti del partito sciita. Hezbollah è uno degli elementi di forza di cui si è avvalso Assad in questa fase.
Durante il G8 si parlerà anche di Turchia e di altri temi relativi al Medio Oriente?
Quando si incontrano i grandi del pianeta, ci sono certamente occasioni per discutere i temi di maggiore rilevanza internazionale. Ma la soluzione dei problemi più spinosi necessita di tempi lunghi e non si presta ad alcuna improvvisazione. Se si ha presente però come vanno le sedute di condominio in un qualunque palazzo italiano quando si discute delle spese maggiori da affrontare, si possono immaginare più facilmente gli ostacoli e le resistenze che occorre superare in ambito internazionale quando è il gioco l’esito di un conflitto complesso. O la reazione a fatti nuovi come la crisi esplosa in Turchia. I compromessi esigono una lunga preparazione, mentre qui è in atto un’accelerazione degli eventi che non permette di ipotizzare il raggiungimento di alcun accordo rilevante. In questi casi, la diplomazia fa il suo lavoro ed assicura che le vere dimensioni degli screzi siano in qualche modo nascoste. Escono quindi fuori blandi comunicati ecumenici, in cui per mettere tutti d’accordo si afferma che si deplora il ricorso del governo di Ankara alla repressione. A mia memoria non ricordo una sola volta in cui il G8 abbia preso delle decisioni per le quali è passato alla storia.
(Pietro Vernizzi)