“Hanno cominciato ad insistere che dovevamo convertirci. Tutti siamo stati ripetutamente picchiati. I più giovani in modo prolungato, continuo”. Sono queste alcune delle parole che quattro cristiani iracheni, incontrati dall’inviato in Iraq del Corriere della Sera Lorenzo Cremonesi, hanno usato per descrivere le loro condizioni durante la prigionia in mano dei miliziani dello Stato Islamico, durata 22 giorni nel villaggio di Batnaia, vicino a Mosul. I quattro uomini raccontano che inizialmente i jihadisti, arrivati nel loro villaggio non hanno mostrato alcun segno di violenza verso coloro che erano rimasti (circa una quarantina di persone su tremila abitanti), limitandosi ad insistere perché quelli fuggiti tornassero. Dopodichè, hanno raccontato i quattro cristiani giunti a Erbil tre sere fa, hanno iniziato a picchiarli intimandogli di convertisti: “il più cattivo è un iracheno sulla cinquantina che si fa chiamare Abu Yakin. Lui mandava i suoi uomini a picchiarci. Ci minacciava. E lui ha ordinato che venissero spezzate le croci in chiesa, ha voluto che le statue della Madonna e del Cristo venissero decapitate e prese di mira con i Kalashnikov”. Tutti e quattro hanno affermato che il vero dramma non sarebbe tanto recitare la “Shahada”, cioè la formula di conversione all’Islam, tanto più la richiesta che ne seguirebbe dopo, ovvero quella di unirsi alle fila degli jihadisti. “Meglio morire che convertirsi” hanno affermato con assoluta certezza i quattro cristiani.