Finito il coprifuoco, la violenza può tornare a dilagare in Egitto. I Fratelli musulmani annunciano altri sette giorni di manifestazioni e il bilancio delle vittime si fa sempre più drammatico. Piazza Tahrir è vuota, controllata dalle forze militari che a luglio hanno deposto Mohamed Morsi. Dei ragazzi del movimento Tamarod (“rivolta” in arabo), simbolo della cosiddetta Primavera araba, non c’è più traccia. La cacciata di Mubarak sembrava aver finalmente aperto la strada a una rinnovata libertà che il popolo egiziano ha accolto con grande entusiasmo, immediatamente sostituito dall’angoscia di fronte alla morte e alla distruzione che sono avanzate velocemente. Le immagini provenienti dal Cairo stanno facendo il giro del mondo: poliziotti e militari armati che sparano sulla folla, nelle aree in cui i sostenitori di Morsi ancora resistono. I media tradizionali, locali e internazionali, proseguono a raccontare questi drammatici eventi, ma ancor di più lo fanno la Rete, i blog e i social network. Lo fanno i giovani e i meno giovani, lo fa il passaparola e i video amatoriali che nell’universo di Internet si susseguono ogni giorno. E’ l’informazione 2.0, libera ma pur sempre di parte.
Scaduto l’ultimatum, al Cairo è scattata una violenta operazione di sgombero da parte della polizia nella moschea al Fatah, in piazza Ramses, occupata dai sostenitori di Morsi. In un video comparso su YouTube vengono ripresi gli agenti che duramente reprimono ogni tentativo di protesta, sparando lacrimogeni e portando fuori i manifestanti. In un altro video, vediamo gli stessi occupanti svuotare in aria alcuni estintori per simulare il gas lacrimogeno. Dove sta la verità? La lontananza da un conflitto ci costringe inevitabilmente a informarci, a leggere e osservare ciò che arriva già confezionato da chi, in quel conflitto, ha degli interessi in gioco. Ciò non scalfisce minimamente la drammaticità degli eventi, della morte tangibile giorno dopo giorno, ma forse dovrebbe spingere chi osserva a porsi qualche domanda in più.
Lo stesso è avvenuto in Siria, dove l’anno scorso alcuni membri dei Comitati di coordinamento locale (Lcc), appartenenti all’opposizione, avevano annunciato la morte di almeno 18 neonati presso l’ospedale pediatrico al Walid, causata dai colpi di artiglieria dell’esercito siriano. Un black-out elettrico aveva tolto l’alimentazione alle incubatrici e a tutte le apparecchiature. La notizia non è stata mai confermata e da molti è stata ritenuta falsa. Non solo, ha incuriosito anche la somiglianza con un’altra notizia (falsa) circolata durante la guerra del Kuwait, quando si diceva che un corpo della Guardia Repubblicana irachena avesse staccato la corrente in un ospedale uccidendo tutti i neonati presenti.
Da quando sono esplose le proteste in Egitto, il conflitto siriano sembra volgere a favore del regime di Assad. I motivi sono diversi, a cominciare dalla fornitura di armi a Damasco da parte della Russia e dall’apparente disinteressamento da parte degli Stati Uniti e dei Paesi occidentali in generale. In terzo luogo, non meno importante, è da notare che i mezzi di comunicazione hanno smesso di occuparsene: adesso è solo l’Egitto a far parlare di sé, mentre tutto il resto passa in secondo piano. In fondo è così che un regime riesce a vincere una guerra, prima di tutto mediatica: facendo in modo che si smetta di parlarne.