NEW YORK – Quando si parla dei guai altrui, si è sempre bravi. Come quando si parla degli immigrati altrui, perché oggi come oggi tutti i paesi sviluppati si trovano a fronteggiare questo fenomeno. E questo fenomeno è un problema serio. Anzi, un guaio. Nessuno sembra capire cosa si possa fare.
Noi, America, siamo una terra di immigrati, un paese che non sarebbe quello che è se non fosse stato il punto di arrivo di decine di milioni di esseri umani. Nella nostra famiglia ci basta guardare i nipoti per rendercene conto. I nostri nipotini che portano impressi nei loro lineamenti, nei loro caratteri somatici i segni visibili di questa storia di gente venuta da ogni dove alla ricerca di un posto che gli accogliesse e permettesse alla loro vita di essere vissuta con speranza e dignità.
Oggi anche i bambini, gli innocenti, soffrono le conseguenze di questo “guaio”. Chissà quanti ne muoiono sui barconi dei disperati, chissà quanti ne scompaiono durante quegli interminabili e disumani viaggi che le loro famiglie intraprendono senza sapere dove andare, compiendo uno sforzo supremo nel tentativo di lasciarsi alle spalle una non-vita ed un non-futuro. E anche quando approdassero da qualche parte, resta l’indelebile marchio dell’illegalità, un’ombra cupa che in qualsiasi momento può voler dire deportazione.
È di questi giorni la notizia di quaranta bambini rispediti in Honduras, deportati dopo aver alloggiato con le loro madri in uno dei tanti centri di raccolta (o detenzione, chiamateli come credete) sparsi lungo i 3.141 chilometri del confine tra Stati Uniti e Messico. Una interminabile striscia di terra addobbata con muri e reticolati e perlustrata dai “Border Patrols”, le guardie di confine. Sono centinaia di migliaia quelli che ogni anno vengono beccati e finiscono in questi campi. Di questi, nel 2014, oltre 57mila bambini. “Lasciateci venire”, dicono le famiglie che si sono indebitate fino all’inverosimile per farsi condurre fino al confine in questo viaggio che sa di speranza e disperazione allo stesso tempo, “Veniamo per lavorare”.
Da che parte cominciamo? Vogliamo riconoscere che i paesi d’origine sono disastri di corruzione e criminalità dove pochi ruggiscono a spese di tanti? Vogliamo ammettere che almeno parte della ricchezza dei paesi sviluppati deriva dallo sfruttamento spietato delle risorse altrui? Vogliamo vergognarci un po’ del fatto che politicamente la “questione immigrati” ristagna da anni e l’unico elemento certo è che tutte le parti in causa sarebbero felici di poterlo ignorare? Vogliamo anche dire che noi, io, tu che leggi, ne faremmo volentieri a meno?
E poi saltano fuori i bambini, e per quanto disastrata la nostra umanità possa essere, l’immagine dei bambini detenuti nei campi profughi e ricacciati indietro verso miseria e violenza, un piccolo tuffo al cuore ce lo dà. Cerchiamo pure di distrarci, ma la corazza di indifferenza che ci siamo costruiti è scalfita. Almeno per un attimo.
Sapete cosa mi hanno fatto venire in mente quei quaranta piccoli dell’altro giorno? I figli indesiderati, quelle creature che nessuno ha cercato eppure ci sono. Al giorno d’oggi di solito ce ne si libera prima. Ma questi ci sono. Non sono stati voluti, sono indesiderati, ma ci sono. E non sono comparsi dal nulla, sono il frutto di azioni, di una vita vissuta in una certa maniera. Sono un misterioso dono di Dio attraverso le nostre azioni.
Ecco, l’immigrazione è un frutto indesiderato, ma è un figlio nostro. Quando arriva un figlio, la sua presenza rimodella la vita, la cambia. Oggi troviamo questi bambini e le loro famiglie come le suore di una volta trovavano quei piccolini alla ruota, in un cesto, involtolati in una coperta.
Possiamo dare un altro mezzo giro alla ruota e rispedire al mittente, o abbracciare l’indesiderato con la speranza che la vita sua, ma anche la nostra, diventino più belle.