Il nuovo anno si apre su un panorama internazionale che è forse il più convulso e rischioso dalla fine della Guerra fredda, segnato da profondi cambiamenti, tuttavia non repentini come possono apparire. Anzi, per certi versi sembrano riproporre scenari già visti, come la contrapposizione tra Stati Uniti, Russia e Cina, che rimanda agli anni 60 e 70. In quel periodo infatti il fronte comunista si divise tra il marxismo storico russo e il nuovo modello maoista cinese. Ora la Russia, abbandonato il comunismo, è guidata da ex comunisti verso un modello neozarista, mentre la Cina, mantenuto il comunismo come struttura di potere, sta intervenendo attivamente in tutto il mondo. Alla base di entrambi i progetti espansionistici si scorge una forte identità nazionale e il vecchio obiettivo di sottrarre spazio al concorrente “imperialismo americano”.
Quest’ultimo appare piuttosto in crisi e non più in grado di imporre una propria visione “mondialista” basata su un concetto missionaristico di ciò che si definiva “eccezionalismo” americano. Anche le contrapposizioni tra la strategia dell’attuale amministrazione e quella dei suoi oppositori rimandano a polemiche storiche, divise tra interventismo e isolazionismo. Tuttavia, la concezione di Trump non sembra definibile come isolazionista tout court e la sua critica alla globalizzazione pare diretta a difendere gli interessi americani in un mondo diventato, o meglio, che non ha mai cessato di essere, multipolare.
Un tragico rinvio al passato è dato dal rischio di una guerra nucleare continuamente evocato dai toni da rissa dello scontro tra Trump e Kim Jong-un. Un rischio che è particolarmente sentito in Giappone, l’unico Paese che ha subito finora nella carne del suo popolo gli effetti di una guerra nucleare. E’ comprensibile quindi l’attuale accelerazione nel riarmo del Giappone, ma questo a sua volta rischia di rievocare in molti Paesi asiatici il doloroso ricordo degli effetti del passato militarismo giapponese.
Anche l’altro grande sconfitto della seconda guerra mondiale, la Germania, accanto al potere politico ed economico sta riacquisendo un ruolo sempre più importante anche nel settore militare. Niente di preoccupante, si intende, il tutto avviene all’interno dell’Unione Europea, se non fosse che proprio questa cosiddetta Unione si presenta al nuovo anno disunita come non mai. E non solo per la Brexit. Il tentativo di costringere gli Stati a cedere ulteriore sovranità a una tecnocrazia autoreferenziale trova sempre più resistenza, se non nei governi, negli elettori di quegli Stati. Questi movimenti di opposizione possono sì essere spregiativamente definiti populisti o fascisti, ma avrà pure un significato il fatto che stiano sorgendo ovunque, perfino nella “virtuosa” Germania.
Alla dialettica Stato verso Ue si aggiungono le fratture all’interno di molti Stati, anche qui un ritorno al passato, al modo in cui sono stati costruiti negli ultimi due o tre secoli. Dopo il referendum scozzese del 2014, vi è ora il più grave caso della Catalogna, che vede il governo catalano in prigione o in esilio, con una grave crisi istituzionale dell’intera Spagna. Eppure, proprio l’Unione Europea avrebbe dovuto essere la soluzione a questi problemi ereditati dalla storia: che differenza dovrebbe fare se i catalani partecipano all’Unione come tali e non come spagnoli? O i veneti come veneti invece che come italiani? Non vi sarebbe differenza se l’Unione fosse stata fatta tra i popoli, ma l’attuale Ue è stata costituita su altre premesse, che vedono nei popoli solo degli ostacoli da superare, o oggetti di educazione, ad opera degli “eletti” che detengono le chiavi del progetto.
Una posizione questa portata avanti da alcuni sull’onda di aspetti emozionali, come Romano Prodi, pur diventato ora molto critico verso l’Ue che lui stesso ha collaborato a creare. Prodi si dice ancora “emozionato” dal passaggio nel 2004 da 15 a 25 membri “in un solo giorno”. Tuttavia, alla domanda su cosa renda tuttora difficile la partecipazione democratica nell’Unione, Prodi risponde “la lingua. Parlare la stessa lingua è un fattore di amalgama, mentre le lingue ufficiali dell’Ue oggi sono 24” (intervista a Popoli, 5/5/2014). Forse, nel prendere quell’azzardata decisione si era pensato che i popoli europei si sarebbero decisi a uscire dai loro meschini nazionalismi e a parlare una sola lingua. Si potrebbe suggerire l’esperanto, visto che con la Brexit l’inglese è diventato extraeuropeo. O forse il latino, ma è la lingua tradizionale di quel cristianesimo escluso come riferimento unitario dalla Costituzione europea, con il beneplacito di Prodi.
Altri si esprimono in modo molto più diretto, come Hermann Van Rompuy nel 2014 — allora presidente del Consiglio Europeo — che in un’intervista al belga De Standaard dichiarò l’intenzione di allargare i confini dell’Ue fino alla Russia, anche se le opinioni pubbliche dei vari Paesi non fossero state d’accordo. Come già detto, i popoli non sanno mai qual è il loro bene e devono essere guidati, che lo vogliano o no.
Benvenuto 2018 in questo “Nuovo Mondo”, peraltro non tanto meraviglioso nei cinquant’anni da quel ’68 famoso per il suo “la fantasia al potere”. Lo stesso 1968 che vide la fine della Primavera di Praga sotto i cingoli dei carri armati sovietici.