GUERRA IN SIRIA. Nella notte del 14 aprile Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno sferrato un attacco missilistico contro tre obiettivi sensibili in Siria, tra Damasco e Homs, in reazione al presunto utilizzo di armi chimiche da parte del presidente siriano Assad in un’operazione interna a Douma. È un’altra pedina sullo scacchiere del caos.
A poche centinaia di chilometri dalla stessa area, Erdogan, con l’operazione “Ramoscello d’ulivo”, è impegnato a sancire la sconfitta militare dei movimenti autonomisti curdi in Siria: le stesse milizie regionali alle quali Usa, Israele e Ue avevano dato, direttamente o indirettamente, appoggio durante la battaglia finale contro lo stato islamico, proprio tra Iraq e Siria.
Definire la Siria il calderone del mondo è oggi troppo semplice, troppo scontato. E persino irrispettoso nei confronti del popolo siriano, che in un calderone si sente e non da poche settimane, ma da quasi sette anni, con un frazionismo interno che ha sventrato il Paese per ragioni politiche, religiose, amministrative.
Sull’azione turca si era percepito un certo disimpegno. Il presidente Erdogan è stato, in fondo, il plenipotenziario dell’Occidente in Medio oriente su una serie di questioni non da poco, dalle politiche migratorie fino alla lotta al terrorismo. Chi può dire se è un alleato o un rivale? È il presidente che negozia la reintroduzione della pena di morte e dell’adulterio femminile come reato o il leader che può rilanciare il percorso di ingresso della Turchia nell’Unione europea? È il draconiano artefice di una pulizia interna contro l’esercito o il riformatore costituzionale che nel 2017 ha accettato di far ratificare al voto popolare la “sua” Costituzione?
Dal punto di vista dei commentatori politici, nazionali e internazionali, sull’operazione siriana le carte sono (apparentemente) molto più chiare. Bashar al-Assad nelle regioni dove è più forte la presa dei suoi fedelissimi governa col pugno di ferro. Documentare analiticamente e inconfutabilmente l’utilizzo di armi chimiche sembra un dettaglio per gli annali: comunque vada, la sua amministrazione è largamente screditata; i consensi interni sono talvolta genuini, ma più spesso conseguenza di un clima civile stremato e stremante.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non ne ha voluto sapere di condannare l’azione di Usa, Inghilterra e Francia, anche se il fondamento internazionalistico non può essere dato per acquisito. Se il profilo delle operazioni anglo-francesi e statunitensi resterà quello di poche notti addietro, sarà difficile negare che l’intervento sia chirurgico, circostanziato, coerente dal punto di vista della mera logica militare. Prima di sapere come andranno le cose, è forse altrettanto opportuno ragionare sulla rappresentazione della guerra che l’attacco in Siria reca con sé nel quadro delle opinioni pubbliche occidentali (e non solo).
L’Italia, per bocca di un governo tecnicamente agli sgoccioli e formalmente vincolato all’ordinaria amministrazione (chissà fino a quando), ha confermato piena amicizia e sostegno logistico all’azione congiunta di Francia, Inghilterra e Stati Uniti, ma si è affrettata a smentire coinvolgimenti diretti. Siamo della partita, insomma: si sappia chi sono i nostri alleati, ma anche che noi non avremmo voluto iniziassero le ostilità. Non si sa se ciò sia un guizzo retorico o, in fondo, la messa a verbale di un’inconsistente autonomia internazionale, tale per cui si onorano gli impegni multilaterali, ma in fondo non si riesce nemmeno ad assumersene la responsabilità.
La Francia di Macron riesce a sgambettare la Germania: la cancelleria Merkel era furente. Che ci fa il socio di minoranza dell’Europa franco-tedesca embedded con gli isolazionisti per eccellenza, il funambolico presidente Trump e il primo ministro della Brexit, Theresa May? La Germania ha fondato la propria supremazia continentale non solo sui rigori di bilancio, ma anche sulla propria discreta azione orientale: selezione scientifica della popolazione migratoria o qualificata nei settori della ricerca o sussistenziale in settori di manovalanza dell’industria nazionale. Non ci si può mettere a fare gli elefanti nella cristalleria esplosiva tra Siria e Turchia. La Francia autonoma, che molla il direttorio tedesco e tratta da pari a pari con Usa e Regno Unito, è in fondo l’unica forma oggi possibile di gollismo: l’interesse nazionale preservato rivendicando la differenza dal contesto euro-unitario.
La Gran Bretagna dà seguito al suo ormai risalente progetto di essere vice-americana nell’occidentalismo della post-modernità. Ciò che quindici anni addietro Blair fece con Bush in Iraq, scatenando allarmi di ogni tipo, oggi attira solo l’opposizione interna del Labour meno attraente delle ultime due decadi, ma che comunque per forza di inerzia potrebbe persino vincere elezioni anticipate.
Atene piange e Sparta non ride. I raid di Trump in Siria non scoprono solo l’Europa divisa, ma il mondo intero. Il gigante cinese è azionista di maggioranza del debito americano, non può farsi saltare i nervi per i dazi trumpisti: è costretto a giocare di rimessa, a parare colpo su colpo, a fare “guerra” di posizione e di logoramento. Sulla guerra vera, può fare moral suasion contro le teste calde di casa propria (leggi Asia e dintorni) e può anche dettare i ritmi nell’Africa nera, dove sta comprando materie prime in solitaria dominazione. In Medio Oriente, però, deve ancora stare attento a come si muove, a quali cordate sono arrivate prima del Moloch dagli occhi a mandorla.
Tuona l’Iran, che pure è sciita, avamposto riformatore e umanitario, ma anche sistema di elevato know-how militare, rispetto agli ordinamenti usciti con le ossa rotte dalle illusorie primavere arabe.
La tensione è dovunque. Pacato, lo zar d’Oriente che già una volta salvò il mondo dal pantano libico-siriano, dice che Usa, e Francia e Gran Bretagna, al trotto, hanno violato il diritto internazionale. Forse il tempo gli darà ragione, ma è notizia non da poco che il leader decisionista Putin, lo stesso che fomenta il nazionalismo esaltando la russofilia e il panslavismo, oggi si ricordi del diritto delle nazioni come insieme di istituti di garanzia. Qualcosa è andato storto, davvero.
Il costituzionalista Luigi Ventura, parlando oltre trent’anni addietro di un “governo a multipolarità diseguale”, preconizzò la fine degli equilibri primo-repubblicani del nostro Paese. Oggi è il mondo intero a districarsi con equilibrismo tra multipolarità ineguali, dove a turno cambiano alleanze, casacche e compagnie di giro. Un vortice in cui ciascuno prova a difendere i suoi appetiti.