Che cos’ha portato a casa Matteo Renzi dal tanto atteso e sospirato incontro alla Casa Bianca? Un buon risultato d’immagine viste le reciproche cortesie di fronte ai giornalisti, un sostegno politico alla linea della flessibilità nell’Eurozona (più sviluppo meno austerità; gli Stati Uniti hanno avuto successo, l’Unione europea no e il modello sono loro), il riconoscimento che l’Italia rischia di essere travolta dal disastro libico: “Basta con il traffico di esseri umani nel Mediterraneo”, ha detto il capo del governo. Può darsi che ne esca una collaborazione concreta per una sorta di cordone navale, se non proprio un blocco. Lo vedremo nelle prossime settimane.
In cambio, Renzi ha promesso di restare qualche mese in più in Afghanistan, di appoggiare l’accordo di libero scambio al quale tengono molto gli americani, di non fare le bizze sulle sanzioni alla Russia che non possono essere annacquate, almeno debbono restare allo stesso livello per tutto quest’anno, ha detto Obama, che ha insistito sull’importanza di “valori e principi” da contrapporre a zar Putin: l’integrità territoriale, la sovranità, la libertà, gli stessi che hanno reso grande e prospera l’Europa liberata dagli americani. A buon intenditore…
Sulla Libia, però, almeno stando a quel che è stato dichiarato ufficialmente, gli Stati Uniti non sono in grado di impegnarsi in nulla di concreto. Il modo in cui ne ha parlato il presidente dimostra in modo chiaro che l’iniziativa è più politica e diplomatica che militare. “La Libia è come la Somalia, un Paese diviso senza un governo – ha spiegato Obama -. La risposta è creare un governo e ciò richiederà tempo”. La disponibilità italiana per guidare un intervento stabilizzatore è rimasta sullo sfondo. Ma sembra chiaro che non è il momento. Renzi ha parlato di convincere le tribù a fare un accordo: “La pace in Libia o la fanno le tribù o non la fa nessuno”. Campa cavallo.
Il pranzo seguito alla discussione nell’ufficio Ovale si è concentrato sulle questioni economiche che stanno particolarmente a cuore al presidente del Consiglio italiano. Perché va bene parlare di flessibilità, ma la situazione italiana dimostra che ci vuole un aiutino e questo non arriva certo dalla Germania, né dall’Unione europea. Berlino e Bruxelles possono chiudere un occhio, ma non aprono il portafoglio. E Washington?
Pier Carlo Padoan si è scontrato con la prudenza del Fondo monetario internazionale dove ha lavorato per anni: la crescita italiana sarà solo dello 0,5%, meno dello 0,7% previsto dal governo. Faremo meglio, promette il ministro dell’Economia. Il bollettino della Banca d’Italia pubblicato ieri conferma questa speranza, anche se attribuisce buona parte della ripresa agli effetti del Quantitative easing della Bce e alla caduta del prezzo del petrolio. Esattamente si tratta di un punto in due anni per il Qe e di mezzo punto per il greggio. Le previsioni di crescita di via Nazionale per il 2015 sono dello 0,5% in linea con il Fmi e con l’Ue, mentre nel 2016 potrà salire all’1,5%.
In altri termini per ora il prodotto lordo è spinto soltanto da Draghi e dal petrolio. “A tali effetti se ne possono aggiungere altri, di non facile quantificazione, qualora un aumento generalizzato dei prezzi delle attività, dovuto al riequilibrio dei portafogli, fornisca ulteriori incentivi a consumi e investimenti”, aggiunge il bollettino, però “è essenziale un consolidamento della fiducia delle famiglie”. Non solo. “Per sostenere la crescita nel medio termine e conseguire un aumento duraturo dell’occupazione è però indispensabile un rilancio del prodotto potenziale. A tale scopo è essenziale proseguire nell’azione di riforma: il miglioramento del contesto normativo e delle condizioni per investire può incidere sulla capacità delle imprese italiane di rispondere e adattarsi con successo ai cambiamenti strutturali in atto nell’economia mondiale”.
Obama si è detto impressionato dalle riforme di Renzi (soprattutto quella del mercato del lavoro perché le altre debbono essere ancora realizzate) e dalla voglia di cambiare lo status quo. Ha anche detto giustamente che le riforme strutturali sono un requisito importante, però se non c’è la crescita non troveranno mai il consenso necessario e rischiano di creare un effetto di sfiducia e di morire soffocate dallo scontento. Bene, ma come sostenere questa benedetta crescita? La spinta può venire da un flusso di capitali americani?
Obama si è impegnato a invogliare molti americani a mettersi in viaggio per l’Expo di Milano per assaggiare i vini e il cibo italiani. E non solo. Gli investimenti sono passati finora solo attraverso i fondi di investimento. Oppure si è trattato di acquisizioni, comprando aziende in crisi che oggi costano poco.
I capitali arrivano, ma per acquistare asset a buon mercato, non per investimenti diretti che creano posti di lavoro. Lo stesso, del resto, vale per gli arabi o per i cinesi. La ragione è molto seria e molto semplice: l’Italia non viene considerata un Paese in cui il capitale possa mettere a frutto i suoi spiriti animali. Il Jobs Act può essere un punto di partenza, però il cammino resta lungo, ha a che fare con il sistema giudiziario, civile e penale, con la garanzia per la proprietà (il caso Ilva insegna), con la cultura di un Paese dove prevalgono veti lobbistici e non ideologici. Ma ha a che fare con le condizioni tecnologiche delle imprese acquisite e con la loro produttività.
Il caso della Indesit acquistata dall’americana Whirlpool che Renzi aveva salutato come un grande successo sta rivelando la faccia oscura della medaglia. Nessun presidente americano può cambiare tutto ciò. Renzi, ha cominciato a fare qualcosa, ma più tempo passa più il suo sprint rallenta; la riforma elettorale e quella del Senato dimostrano che cammina sulle uova. Quanto a Obama, farà le valigie e alla fine la svolta resterà tutta nelle nostre mani.
Lo stesso messaggio è stato lanciato alla Grecia. Obama si è mostrato comprensivo, ma fermo. E dall’incontro con Tsipras nel febbraio scorso non era uscito nessun aiuto concreto. “Non si è discusso di prestiti”, ha specificato il presidente. Il governo greco deve fare le riforme, far pagare le tasse, ridurre la burocrazia, deve “provare ad aiutarsi da solo”, ha detto papale papale pur ribadendo che serve un po’ di flessibilità. Insomma, gli Stati Uniti sono comprensivi, ma la sorte della Grecia è nelle mani dei greci e degli europei. Renzi non ha fatto altro che ripetere la linea ufficiale: Atene va aiutata se rispetta gli impegni. E per non lasciare equivoci ha ricordato che l’Italia gli impegni li rispetta, “anche quelli che non ci piacciono”.
Se l’incontro fosse avvenuto un anno fa o magari nell’autunno scorso, come desiderava Renzi, i risultati sarebbero stati più concreti? Forse, ma nei suoi confronti l’Amministrazione americana ha preferito mantenere un atteggiamento cauto. Il sindaco di Firenze era un perfetto sconosciuto (“un giovane pieno di entusiasmo e di energia”, ha detto Obama ricordando il loro primo incontro), senza rapporti internazionali; è piombato come un uragano, ha detto di voler rottamare tutto, suscitando stupore, speranza ma anche scetticismo. Wait and see è stata la reazione del Dipartimento di Stato, della Casa Bianca, di Wall Street. Monti fa parte dell’élite globale, Enrico Letta anche, sia pur come junior partner, Renzi non ancora.
L’Italia, del resto, non è più un pericolo per la stabilità europea e internazionale, l’emergenza è finita anche grazie agli Stati Uniti che hanno dato una mano soprattutto a Monti quando si trattava di smussare gli angoli con la Germania, di convincere Angela Merkel a non tirare troppo la corda. Raggiunto l’obiettivo, passata la tempesta, l’Italia è rientrata nella normalità. Dunque, a che pro sconvolgere l’agenda degli appuntamenti?
Questo ritorno nel cono d’ombra della politica internazionale potrebbe anche far piacere dopo tre anni al cardiopalmo, salvo il fatto che si tratta di un’impressione. Dalla Libia alla Grecia, dal terrorismo all’eurocrisi, il Mediterraneo resta un mare tempestoso e l’Italia volente o nolente si trova esattamente nel centro geopolitico della bufera.