In una delle campagne politiche più aberranti della sua storia, con colpi bassi veramente indegni di candidati che dovrebbero rappresentare un popolo in un Governo democratico, il Brasile ha deciso, con uno strettissimo margine (51% contro 49%) di riporre la sua fiducia nella Presidente uscente Dilma Rousseff, decretando la sconfitta del socialdemocratico Aecio Neves. Ma il dato importante è che il Paese dove il PT, Partido do Trabalhadores, l’aveva fatta da padrone per 16 anni, adesso si è clamorosamente spaccato in due.
Diciamo subito che la Presidente ha potuto confermarsi solo grazie ai voti delle regioni più povere del Brasile, dove la minaccia da lei sparsa ai quattro venti che in caso di vittoria avversaria si sarebbero tolti i miseri sussidi che lo Stato concede alla massa di diseredati che si contano ancora (ma che è ben altra rispetto alla povertà in Argentina, che ormai raggiunge il 40%) ha fornito il carburante necessario al raggiungimento dello “storico” (per Rousseff) risultato.
Questo non è l’unico argomento tirato in ballo dalla rappresentante del PT: per tutta la campagna elettorale durata 15 giorni, Rousseff, evidentemente sentendosi con l’acqua alla gola, ha tirato dei colpi talmente bassi utilizzando illazioni sulla vita privata del suo avversario (dipinto come un playboy e un violento) per far colpo sull’elettorato. Questo in risposta alle accuse che, a dire la verità, nemmeno lei è riuscita a respingere, di aver presieduto in questi anni un Governo altamente corrotto, con scandali in serie che l’hanno costretta a dichiarare misure, peraltro solo teoriche a quanto pare, di lotta contro questa piaga.
Ma tant’è, la vittoria è arrivata, ma è stata di così stretta misura da costituire un serio problema, anche se alla Camera la coalizione vincente non dovrebbe avere soverchi problemi a governare. Il risultato attuale potrebbe rivelarsi a breve un boomerang di alta pericolosità, perché i numeri del boom brasiliano, anche a causa della crisi mondiale che comincia a farsi sentire soprattutto a livello di esportazioni, iniziano a essere preoccupanti, anche perché i conti dello Stato cominciano a non tornare.
La ragione è semplicissima: opere faraoniche a parte, il maggior numero delle quali non ha poi una così grande importanza sociale, la corruzione e soprattutto la quantità gigantesca di elargizioni (o se preferite di elemosine) alle classi più povere iniziano a incidere spaventosamente sui bilanci, come d’altronde capita in tutti gli Stati dove regna il populismo. Si arriva a un punto nel quale esse sono irrinunciabili, perché ciò significherebbe una perdita di voti incalcolabile e allora i fondi iniziano a essere sottratti in altri settori. Ad esempio, nonostante le reiterate promesse (fatte pure da Lula), la sanità in Brasile è a un livello spaventoso, una delle peggiori del Continente, ma si è preferito salire sul carro dei Mondiali di calcio e avere le Olimpiadi, che hanno comportato investimenti faraonici sottratti al sociale, il tutto per una questione di mera immagine.
Questo è il punto focale, l’apparire invece di essere, cardine dello sviluppo distorto delle cosiddette democrazie popolari e non solo: principio vecchio quasi come il mondo nel quale ci si impegna per un obiettivo sociale, ma alla fine poi si scopre che ciò e solo una lepre impagliata da dare in pasto ai media e alla gente. Lo stiamo vedendo anche in Italia con il Jobs Act, che in teoria dovrebbe essere uno strumento per l’incremento del lavoro ma in pratica nasconde un “cambio generazionale” brusco e durissimo, dove gli over 50 devono uscire dal ciclo lavorativo forzatamente e senza prospettive pensionistiche serie per far posto a molti giovani i cui contratti però rischiano di essere, anzi già lo sono, flessibilissimi.
Così in Brasile, ma pure in Argentina, si parla di lotta alla povertà ma poi si elargiscono elemosine che hanno il solo scopo di mantenere inattive e quindi di bloccare nella loro condizione le classi meno abbienti, senza introdurre in alcun modo un cardine essenziale: quello della cultura del lavoro. E ciò significa non elevare socialmente e anche culturalmente, in un’epoca dove il libero pensiero, stretto dalla falsa libertà di internet e media ormai quasi del tutto ossequienti del potere di turno, diventa il nemico da abbattere. E quindi ciò trasforma la povertà in un potente mezzo politico: chissà cosa ne pensa papa Francesco, visto che proprio nella sua Argentina il mezzo è stato ed è usato senza nasconderne troppo i fini.
Altro problema risiede nella concezione di potere eterno, altro grande nemico della Democrazia, al quale si punta ma che rischia, cosa sempre accaduta, di precipitare i paesi in crisi dovute alla trasformazione dello Stato in un monolite al servizio dell’arricchimento esponenziale del Governo di turno. È un aspetto preoccupante e la speranza, a dire il vero poco plausibile, è che Dilma capisca tutto ciò e adotti delle misure tali da mantenere indipendenti settori gestiti dallo Stato, come ad esempio l’informazione e la banca centrale. Perché in caso contrario quella attuale, da vittoria di Pirro si trasformerebbe in un de profundis inevitabile.