Lunedì scorso ha avuto luogo il secondo appuntamento del ciclo “Storie dal mondo”, con il documentario di Gian Micalessin, proiettato senza volerlo proprio nei giorni in cui le forze dei ribelli stanno prendendo il controllo di Tripoli decretando la fine dell’ultra quarantennale regime del colonnello Gheddafi. Il documentario è stato girato a Bengasi nei primi giorni dopo l’inizio della rivolta, quando le forze di polizia hanno represso con la violenza una manifestazione di protesta contro il governo. Il 19 febbraio l’esercito spara dall’interno delle mura sulla folla che tornava manifestando dai funerali delle vittime. Il giorno successivo i ribelli sfondano i cancelli di Katiba e la conquistano. Così è cominciata la cosiddetta rivoluzione libica, che ha portato alla creazione di gruppi, coraggiosi ma disorganizzati, di giovani manifestanti che potessero rovesciare il controllo dei militari nella città di Bengasi. Nel documentario i ragazzi dicono che desiderano una società più giusta, una università migliore, un’economia libera e vogliono liberarsi dal tallone di Gheddafi che da 42 anni tiene soggiogata la loro città. A parlare è Mohammed, 21 anni: “Potremmo andare anche a casa a dormire, ma preferiamo stare qua, a protestare, fino a quando il governo non sarà caduto, anche se ci volessero tre mesi”. Le ragazze intervistate parlano dei diritti delle donne, di come sognano il futuro, della questione del velo e di come organizzano i pasti dei volontari. Si respira un’aria di grande fermento e di collaborazione fraterna. Un altro elemento che ha colpito molto del documentario è stata la religiosità dei ragazzi. Un ragazzo diretto al fronte afferma: “Il primo motivo per cui combatto è la religione, poi vengono la libertà e la democrazia”. “Spero di incontrare presto una ragazza con cui sposarmi”, dice invece un altro ragazzo. Il reporter, nella fase conclusiva dell’incontro, spiega che dopo crollo del regime, che appare ormai imminente, la Libia dovrà affrontare un periodo molto critico in cui sarà concreto il rischio di una “somalizzazione” del paese. Quello degli insorti è un popolo per certi aspetti ancora immaturo, e questo si è già visto nei mesi successivi della rivolta.
I ribelli hanno mostrato scarse capacità organizzative e di autogestione, nonché numerose divisioni interne. Riferendosi alla risoluzione Onu, che ha permesso di fatto la continuazione e il recente successo della rivolta, si evince dai commenti del reporter che la comunità internazionale non ha saputo riconoscere che quella in atto non era una rivoluzione di un popolo unito contro un tiranno, quanto piuttosto una rivolta interna alla Libia.