È molto strana la Russia di questi giorni, molto più composita di quanto se la immagina l’Occidente che, un po’ troppo sbrigativamente, la liquida dividendola in due campi nettamente distinti: uno quello dei nazional-traditori, fatto dei pochi che si oppongono alla propaganda governativa e l’altro, quello della maggioranza patriottica, fatto di chi si allinea totalmente a questa propaganda e desidera soltanto schiacciare l’Occidente.
In realtà questa divisione viene fatta pure in Russia, ma poi, a differenza di quanto accade in Occidente, c’è anche qualcuno che si ribella a questa polarizzazione. In un suo intervento Valerij Panjuškin cerca di catalogare i vari campi contrapposti: ci sono i separatisti che, a seconda di quale sia lo schieramento dal quale li si guarda, diventano o combattenti inappuntabili o perfetti provocatori; ci sono gli oppositori al regime russo, immacolati araldi della libertà o perfetti traditori al soldo degli agenti stranieri; c’è Putin, perfetto usurpatore o irreprensibile capo di governo; ci sono due eserciti ucraini, uno di esseri senza macchia e l’altro di mostri.
Sempre e in ogni caso il segno più o il segno meno sono messi a prescindere da un qualsiasi dato reale e dipendono esclusivamente dalla logica degli schieramenti o di quello che potrebbe essere chiamato il complotto degli impeccabili, dei puri, dei perfetti: c’è una parte fatta di angeli e una parte fatta di diavoli, e una volta che hai tracciato i confini netti tra i due campi e ti sei collocato in quello giusto, tutto è a posto. Ma, dice Panjuškin, io so che non è così. Come fa a saperlo? La risposta è disarmante: non è così, dice più o meno, perché io non sono così, perché so che non sono perfetto, non sono un eroe senza macchia e senza paura, ma neppure una carogna senza scrupolo alcuno.
Sia chiaro, precisa subito Panjuškin, non è che io non voglia conoscere la verità e soprattutto non è che io non voglia vedere punito il male ed esaltato il bene trionfante, ma so che le cose non sono così semplici. Tra tutti i sentimenti che circolano, ira, odio, ammirazione, esaltazione, conclude Panjuškin, io preferisco la pietà; sarà per una patologia psichica o forse semplicemente perché io so che non sono perfetto e vorrei che ci fosse qualcuno ad avere pietà e compassione di me, e del mio limite, mentre se ci sono soltanto esseri perfetti, impeccabili, immacolati e inappuntabili non c’è più spazio per la pietà.
Due cose colpiscono in questa rivolta: innanzitutto colpisce che si parli in nome dell’esperienza personale, dell’io, che ciascuno può verificare sulla propria pelle senza fare troppi discorsi e senza dover ricorrere ai pareri di esperti incontrollabili, mentre in questi giorni, nella maggior parte dei commenti sulla tragedia del Boeing abbattuto in Ucraina, si parla di impressioni o di teorie astratte e impersonali; la seconda cosa che colpisce è che si parli di pietà e che ci sia qualcuno che dice non sono perfetto, non sono impeccabile, ho sbagliato, mi pento, ho bisogno di essere perdonato.
E allora? Che c’è di interessante in questo discorso? Che me ne viene in tasca da questo pentimento? Ci stiamo occupando di una cosa così tremendamente concreta come una guerra e un aereo abbattuto – ci potrebbero controbattere – e questi ci fanno sempre discorsi sull’uomo, invece di spiegarci le cause storiche, geografiche, politiche ed economiche che hanno scatenato questa guerra.
Forse sarebbe facile rispondere che sull’aereo c’erano quasi trecento persone, che in guerra a morire e a uccidere sono sempre e soltanto degli uomini, e che in fondo non si vede perché dovrebbero essere più concrete degli uomini le leggi della politica e dell’economia di cui dubito che tutti capiscano tutto (io, comunque, proprio non capisco tutto). Ma sarebbe una risposta a effetto fin troppo facile. Proviamo allora a rispondere alla domanda più concreta di questi giorni, proviamo a vedere cosa succederebbe se si risolvesse il problema concreto che più tormenta tutti i commentatori di questi giorni, quello del colpevole.
Sempre Panjuškin si è posto questa domanda in un altro articolo. C’è una sola persona che può sapere con assoluta certezza chi sia stato il responsabile dell’abbattimento del Boeing: chi ha fatto partire il missile che lo ha abbattuto; che cosa succederebbe, si è chiesto Panjuškin, se questa persona, vedendo la tragedia che ha provocato, si pentisse e dicesse “perdonatemi, sono stato io”? La risposta, anche in questo caso, è disarmante: nessuno gli crederebbe. In Russia (Panjuškin, per motivi suoi, è convinto che a fare questa confessione possa essere un russo) i filo governativi lo considererebbero un folle, un provocatore o un traditore, ma anche i liberali lo guarderebbero con sospetto: potrebbe essere uno che vuol farsi pubblicità, un inquinatore di prove o, ancora una volta, un matto; e anche in questo caso, alla lunga non gli crederebbero.
A questo punto, dopo tanto fracasso, la sua testimonianza potrebbe arrivare in Occidente, dove forse si troverebbe qualche giornalista serio che dopo un’attenta analisi diffonderebbe la notizia; ma anche qui nessuno gli crederebbe: una parte dell’opinione pubblica lo considererebbe come in Russia un servo degli americani, gli altri, i russofobi, non gli crederebbero perché un pentito non gli serve, loro sanno già che l’assassino è Putin, e solo lui.
E allora?, si chiederà ancora, a questo punto, chi è arrivato sin qui. Allora, niente. Sta di fatto che per chissà quale strano motivo, l’unico modo certo per arrivare a capire cosa è successo, credere a una persona e al suo pentimento, credere che ci sia qualcuno che si può pentire, non verrà preso sul serio e noi continueremo a restare con la nostra domanda irrisolta e, cosa ben più importante, continueremo a odiare e a uccidere, e poi a giustificare gli eventi o a cercare i colpevoli. E se invece provassimo a dire che anche noi siamo colpevoli, che anche io sono colpevole per non esser riuscito a fermare quella mano prima che facesse partire il missile? E se provassimo a pentirci? Se provassimo a dire che non capiamo tutto, non capiamo neppure i nostri errori e ci pentiamo?