“Avanti così”: è questa la formula che, secondo Jean-Claude Juncker, meglio sintetizza il futuro dell’Ue. Ieri il presidente della Commissione ha presentato al Parlamento europeo il “Libro bianco sul futuro dell’Europa”. Sono cinque le strade possibili per il dopo Brexit: “Avanti così”, “Solo mercato unico” (ma “non è questa la mia soluzione, ha precisato Juncker), “Chi vuole di più fa di più”, (ovvero l’Europa a più velocità), “Fare meno in modo più efficiente” e infine l’opzione politica più forte, “Fare molto di più insieme”. Cinque percorsi possibili sui quali la Commissione per ora non si esprime, perché al suo interno — ha precisato Juncker — non vi sarebbe unanimità di vedute.
Ma non è tutto. Non deve sfuggire un’altra sentenza di Juncker: “Oggi non c’è la volontà collettiva per una modifica dei Trattati”. Tradotto: rigore e vincolo esterno per tutti, senza se se senza ma, fino a quando Berlino lo vuole. “Queste opzioni non hanno senso” commenta Rino Formica, ministro socialista nella cosiddetta prima repubblica.
Perché, Formica?
Gli slogan di Juncker sono come le destinazioni di un grande giro turistico, dai ghiacciai alle piramidi. Poi però è come se l’organizzatore dicesse: ohibò, non abbiamo i soldi per il viaggio.
Fuor di metafora?
Dire che non si possono modificare i Trattati, è come dire che non ci sono le condizioni per fare nulla: nemmeno per lasciare le cose come stanno! Se non avesse messo in lista l'”avanti così”, lasciare le cose come sono poteva essere una conclusione logica dell’impossibilità di fare le altre. Ma se le opzioni operative non sono possibili, significa che nemmeno lasciare le cose come sono oggi è possibile.
Nemmeno ridurre la disoccupazione è alla portata dell’Ue: non è il suo compito, ha detto Juncker. Ciò che può fare è stimolare gli investimenti.
Chapeau. La domanda diventa: che cosa la teniamo a fare, questa commissione con il suo presidente? Non si capisce se questo memorandum è stato fatto da un irresponsabile che non si rende conto di ciò che dice, o da una persona scaltra che estremizza il ragionamento per scuotere i grandi paesi che hanno il merito della condizione di stallo in cui ci troviamo.
Lei per quale risposta propende?
Sono indeciso, ci sto ancora pensando.
Il capogruppo dei socialisti Gianni Pittella si è detto deluso dal libro bianco di Juncker perché manca un’opzione politica.
Le parole di Pittella sono inutili. Se i nostri politici non sono d’accordo, dovrebbero farne una questione politica e sollevarla dinanzi al presidente Tajani, perché la Commissione risponde del suo operato davanti al Parlamento europeo.
Posizioni come quelle di Juncker non rischiano di alimentare il voto antisistema in Francia e Germania?
Non saranno le dichiarazioni di questi leader a portare la rottura o il risanamento, ma le tendenze politiche maggioritarie che questi paesi esprimeranno.
Quindi?
Vedo maggiore stabilità in Germania e più instabilità in Francia. Andiamo verso elezioni imprevedibili. Certo è grave la contraddizione tra giudizio e comportamento da parte di chi ha responsabilità di governo. Ma la questione va sollevata anche nel governo italiano, che ospiterà le celebrazioni del compleanno europeo (Trattati di Roma del 1957, ndr). Siamo gli ospiti e non possiamo organizzare una festa per celebrare un funerale.
L’Unione monetaria ha creato sperequazioni, impoverito interi paesi a vantaggio di altri. Fare il funerale non sarebbe molto più realista e conveniente?
Per mia convinzione politica profonda ritengo che il tanto peggio-tanto meglio non ha mai prodotto niente. Spesso analizziamo le forze negative come vincenti e quelle positive come battute. Le forze europeiste non hanno trovato un centro mobilitante forte ma esistono in Europa.
Anche in Italia? Nel 2002 gli italiani pro Europa erano il 71 per cento, oggi sono il 23.
Onestamente, non è sufficiente l’omelia domenicale di Scalfari per rianimare gli europeisti in Italia.
Che cosa ci vorrebbe?
Una grande azione comune di partiti, sindacati, associazioni culturali. Ci vuole una sveglia da parte delle università, dei centri di ricerca, del giornalismo alto, dell’informazione.
Se è quella che si è vista fino ad oggi…
C’è un grave deficit di classi dirigenti nel paese. Ognuno fa il suo calcolo: se c’è la crisi dell’euro forse ci guadagno; anzi, danneggia il mio concorrente quindi mi va bene. C’è una tale frammentazione che nessuno calcola se la somma dei “mi va bene” sia ancora di segno positivo.
Chi per lei in Italia è politicamente più attrezzato a fare fronte a questa fase che si apre?
Una nuova forza europea non può nascere da un sistema politico disgregato. Può nascere, ripeto, nelle élites culturali. L’occasione è data dall’iniziativa che in Europa si dovrà prendere con la regolamentazione del Brexit.
Si spieghi.
Perché si discute per la prima volta qual è il modello delle relazioni da stabilire tra un paese che vuole uscire e la realtà che rimane. Questo lavoro è la chiave per capire se i 27 sono ancora una unità o no.
E se non lo fossero?
Intanto aspettiamo di vedere. Una cosa è che se ne vada uno solo, altra cosa è trovarsi tutti sull’orlo del cratere, pronti a saltare. Quella circostanza, o anche solo il suo approssimarsi, sarebbe la doccia fredda di chi pensa a diverse marce, diverse velocità o cerchi concentrici che dir si voglia.
Gentiloni sta facendo il suo lavoro. Potrebbe diventare trainante o più autonomo rispetto al partito, oggi così in difficoltà, che lo sostiene?
E’ la premessa che va discussa: che questo governo stia facendo bene, non si può dire; come non si può dire che stia facendo male. Per il momento ha cambiato lo stile del rapporto tra governanti e governati, improntandolo al rispetto. Ma grandi decisioni che riguardino il futuro del paese, questo governo non le ha ancora prese. Però le dovrà prendere presto, quando si tratterà di decidere come fare la nostra manovra.
(Federico Ferraù)