Theodore Roosevelt fu il Presidente degli Stati Uniti d’America che definì il Pacifico il cuore degli interessi della sua patria e se si pensa che unitamente a questa sintetica definizione egli, per tutta la sua presidenza, per tutta la sua vita, si batté perché gli interessi americani fossero difesi con un atteggiamento che così definiva “Speak softly and carry a big stick” (“Parla gentilmente e portati un grosso bastone”), ebbene si comincia ad avere un quadro esatto di ciò che sta mutando nella politica estera nordamericana.
Ashton Carter, segretario della Difesa, ha ripreso questo concetto, nel corso della sua missione presso le forze navali nordamericane del Mare del Sud della Cina, compiuta all’inizio di novembre. Carter ha fatto chiaramente riferimento alla teoria di Roosevelt e ha sottolineato che questo è l’atteggiamento che si attendono tutte le nazioni che si affacciano su quel mare, auspicando che, in tal modo, gli Usa si oppongano alla militarizzazione di quelle acque, condotta in modo spiccato e arrogante dalla Cina.
La tensione è, come noto, salita allorquando le forze navali cinesi hanno costruito nelle Spratly Islands una serie di isole artificiali configurate in modo da essere utilizzate sia come base di appoggio navale che come aeroporto per voli a medio e lungo raggio. Il discorso di Carter giungeva al culmine di dieci giorni di manovre militari condotte dalla flotta Usa e da colloqui dello stesso Carter con il suo corrispettivo cinese, diretti a dissuadere la Cina da queste azioni muscolari. Se si considera che oggi gli Stati Uniti si debbono confrontare con vere e proprie crisi militari in corso in Siria, in Iraq e in Ucraina, ben si comprende come la volontà, spesso resa manifesta dal Presidente Obama di diminuire la presenza militare Usa in tutto il mondo, incontri gravi ostacoli.
Certo, Obama esprime quel ventre molle del Nord America che si potrebbe definire riluttante rispetto agli impegni internazionali. Ma la realtà dell’aggravarsi dell’equilibrio di potenza in tutto il mondo, dal Mar Cinese del Sud al Mediterraneo, mette in scacco tale riluttanza. Se poi si pensa che questa situazione giunge dopo anni di cooperazione militare tra Usa e Cina, gli interrogativi si affollano. Era così imprevedibile il cambiamento di atteggiamento cinese, che taluni osservatori infatti ritenevano strutturalmente pacifico deridendo coloro che invece ritenevano strutturalmente aggressiva la presenza cinese?
Naturalmente gli Usa hanno sempre condotto la loro azione diplomatica su due piani. Il primo era una sorta di continuazione della politica kissingeriana di cooperazione con la Cina, nata nella metà degli anni Settanta del Novecento. Ma quella politica era sorta per accerchiare l’Unione Sovietica e avrebbe dovuto essere rivista rapidamente dopo il crollo dell’Impero Sovietico. L’altro piano è stato ed è quello della cooperazione militare, via via rafforzatasi negli ultimi anni con il Giappone, le Filippine e l’Australia. Recentemente a questi stati si è aggiunta la Malesia, come dimostrano le manovre condotte con questo Stato e i colloqui sempre più stretti tra i due governi, diretti a integrare sempre più le forze armate delle rispettive nazioni.
L’atteggiamento della Malesia dimostra che la politica cinese non fa che accrescere i sospetti tra tutti gli stati confinanti con l’Impero di Mezzo, o che in qualche modo hanno rapporti con la Cina. Se si pensa al voto in Myanmar, ossia nell’antica Birmania, che confina a est con la Cina, a ovest con l’India e il Bangladesh e a sud est con il Laos e con quella nazione strategica del sud est asiatico che è la Tailandia (che è l’unica a non essere mai stata colonizzata), ben si comprende come tutta l’Asia dal Mare delle Andamane al Mare della Cina del Sud sia entrata in movimento, tanto più che le elezioni in Birmania sono le prime dopo cinquant’anni di dittatura militare.
Anche lì si gioca una partita decisiva che l’Occidente ha sempre sottovalutato, preferendo riferirsi al nobile tema della libertà politica del Premio Nobel per la Pace Suu Kyi, sottoposta a ogni forma di repressione e di isolamento, che non ha impedito tuttavia lo sviluppo del suo partito che ha vinto le elezioni contro le altre formazioni politiche sorrette dai militari. L’orientamento di questi ultimi, tuttavia, diverrà determinante sul piano delle alleanze e sul peso relativo che avranno in questo senso o l’India oppure la Cina, con la Tailandia che, come sempre in tutta la sua storia, è destinata a svolgere un ruolo di mediazione tra le parti. Ruolo che sarà tanto più efficace se gli Stati Uniti riaffermeranno una volontà, non dico aggressiva, ma egemonica sulla regione. Volontà che pare l’unica forza in grado di diminuire la probabilità di conflitti militari e convenzionali.
Del resto un insegnamento agli Usa dovrebbe venire da ciò che capita in Medio Oriente. I loro errori strategici, che hanno portato alla destatualizzazione della Libia e dell’Iraq, con l’Egitto che ha miracolosamente ritrovato lo state building grazie alle sue immense risorse nazionalistiche e al ruolo, mai abbastanza osannato, dei suoi militari, la crisi strategica degli Usa, dicevo, dovrebbe aprire un nuovo orizzonte all’ establishment della nazione che ancora decide le sorti del mondo. In questo senso l’intervento russo in Siria, e in generale nel Medio Oriente, non può che essere positivo.
Intendiamoci: la questione militar-strategica dirimente non è tanto nei raid aerei contro l’Isis e le forze anti Assad, armate dagli Usa e dall’Arabia Saudita. L’elemento dirimente è stato ed è il lancio dei missili a lunga gittata dall’agile squadra navale operante nel Mar Nero, che ora detiene un retroterra solido e sicuro grazie all’annessione della Crimea. Se i nordamericani possono e debbono rifarsi a Theodore Roosevelt, Putin ha esplicitamente fatto riferimento a uno dei giganti del pensiero diplomatico, non solo sovietico ma anche poi russo, ossia Evgenij Maksimovich Primakov. Putin rese esplicito tutto ciò nel corso dell’orazione che tenne in occasione della sua morte il 26 giugno 2015.
Il ruolo di Primakov, prima come Premier e poi come ministro degli Esteri della Federazione Russa, è stato quello di ricostruire il ritorno della Russia sulla scena mondiale nei tardi anni Novanta, rifiutando una passiva integrazione nel blocco occidentale e consegnando all’attuale ministro degli Esteri, Lavrov, la sua immensa cultura sul Medio Oriente e sull’Asia. Siamo davanti a due orientamenti profondamenti diversi nel rapporto tra politica estera e politica nazionale. Pur tra le mille difficoltà di quest’ultima, esacerbata dalle sanzioni, la politica estera russa continua a svolgersi con una continuità storica senza precedenti, al di là della stessa trasformazione del sistema economico.
Non si scherza con la storia. Le nazioni che aspirano all’egemonia mondiale, o regionale, se non sono grandi potenze, ben comprendono questa lezione. Speriamo che la citazione di Roosevelt da parte di Carter segni un’inversione di tendenza anche da parte degli Usa, perché è di questo che un mondo, che sta scivolando nella stagnazione secolare e nei danni che è destinata a provocare la nuova alleanza sino-britannica, ha profondamente bisogno.