Sabato 15 dicembre i cittadini egiziani si sono recati di nuovo alle urne per decidere l’approvazione della nuova Costituzione. Dopo aver scelto il proprio Parlamento e il proprio Presidente, l’Egitto sceglie la proprie istituzioni e, forse, il proprio futuro.
Si tratta, inutile dirlo, di un momento importante per il Paese della primavera araba che si appresta a fare un ulteriore passo avanti sulla tortuosa via della transizione. Un cammino intrapreso, si sa, nell’inverno del 2011 quando iniziarono le prime sommosse di piazza e proseguito poi fin qui con alterne fortune. Un cammino che per diverse cause, prima tra tutte l’assenza di una organizzata opposizione politica, ha visto correre in prima linea i movimenti islamici, con il partito Libertà e Giustizia dei Fratelli musulmani in testa. Ed è innegabile che anche la Costituzione che l’Egitto si appresta a votare, e che andrà a sostituire quella precedente che regolamenta il sistema egiziano dal 1971, rispecchia le linee direttrici del partito al potere, sia per alcuni dei principi che la regolano sia per il contesto socio-politico in cui è nata e in cui potrebbe collocarsi.
In particolare, da un punto di vista normativo, da alcuni degli articoli della bozza costituzionale emerge il tentativo di sostenere la nascita di uno Stato di diritto, vicino a quello delle “moderne” democrazie presidenziali, a cui però fa da contraltare la volontà di preservare e, anzi, di valorizzare le norme morali tradizionali. La Carta, infatti, da un lato stabilisce la necessità di circoscrivere lo strapotere del Presidente (anche con la riduzione della durata del suo mandato a quattro anni e con una sola possibilità di rielezione) e abolisce la possibilità di limitare la libertà di stampa e i diritti fondamentali attraverso le tanto discusse leggi di emergenza, ma dall’altro rafforza i meccanismi preposti al rispetto della shari’a che, seppure considerata già nella precedente Costituzione la principale fonte legislativa del Paese, era stata spesso bypassata nei precedenti regimi.
In particolare l’articolo 4 della nuova Carta costituzionale demanda ad un organo non elettivo, gli esperti dell’Università Al Azhar – il più antico istituto accademico religioso sunnita del mondo islamico – la possibilità di verificare che le norme proposte dal Parlamento siano rispettose della legge, riducendo, dunque, i poteri della Corte costituzionale che spesso in passato ha fornito interpretazioni progressiste della legge islamica. Ora, se è vero che i saggi di Al Azhar, sotto la guida del grande Imam Ahmed el Tayeb, hanno fin qui ben rappresentato l’islam moderato, nulla vieta che in futuro un nuovo Imam potrebbe invece farsi portavoce di tendenze maggiormente estremiste, con evidenti conseguenze sull’interpretazione e dunque l’applicazione dei precetti della shari’a.
Appare dunque evidente come il progetto di Morsi, su cui la popolazione egiziana è chiamata ad esprimersi, pur non disegnando tout court uno Stato teocratico potrebbe aprire a possibili derive estremiste. Se da un lato, infatti, è evidente lo sforzo di garantire uno Stato di diritto, dall’altro si affida a un’autorità religiosa la possibilità di interpretarne, senza appello, i principi, depauperando di questa prerogativa le autorità giuridiche e legislative, con la temibile ipotesi di lasciare in balia di mutabili tendenze religiose la facoltà di regolare le libertà dei cittadini. Anche se dunque al momento non è plausibile affermare che la nuova Carta egiziana presupponga necessariamente una deriva integralista, è pur vero che sussistono elementi di ambiguità. Detta in altre parole, la Costituzione sulla carta presenta principi liberali ma, de facto, se gestita da un sistema autoritario, potrebbe generare una vigorosa “virata islamista”.
Al di là dell’interpretazione dei principi regolatori, però, va anche considerato il contesto in cui la Costituzione, se approvata, andrebbe a collocarsi: un Egitto evidentemente diviso proprio sui suoi articoli cardine. Articoli che, giova ricordarlo, i Fratelli musulmani e i salafiti hanno deciso di continuare a scrivere nonostante le dimissioni di molti membri dell’Assemblea Costituente e senza, dunque, cercare un compromesso con i liberali e, più in generale, con le molte altre “anime” del Paese. Le numerose proteste di questi giorni hanno disegnato uno Stato profondamente spaccato tra la Fratellanza musulmana, che oggi guida l’Egitto post rivoluzione, e gli attori che, invece, quella rivoluzione l’hanno fatta, o comunque voluta e che, in qualche modo, vogliono raccoglierne i frutti. Ma forse proprio su quest’ultimo punto sta la forza di quello che da più parti è stato ribattezzato il ”nuovo Faraone”: le eterogenee forze dell’opposizione sono ancora divise e, se questa divisione è stata la carta vincente dei Fratelli musulmani già durante le precedenti elezioni, questa stessa frammentazione è oggi, ancora, il più potente alleato di Morsi e della forze islamiste più in generale.
Su queste basi, dunque, qualunque sia il risultato del referendum, anche se il “sì” appare piuttosto scontato, una nuova Costituzione, o meglio, questa nuova Costituzione, potrebbe non essere sufficiente a dare al Paese la tanto agognata stabilità.
Giova ricordare che i processi di transizione sono percorsi lunghi e tortuosi, che non si risolvono in un batter d’ali né in una “primavera” e saranno necessari numerosi assestamenti prima che il “sistema” possa trovare un proprio equilibrio e il Paese possa avviarsi verso un futuro democratico, fondato su uno Stato di diritto che non sia tale solo sulla carta ma anche, e soprattutto, nella vita del proprio popolo.