I recenti fatti di sangue che hanno visto protagonisti la minoranza cristiana in Iraq non sembrano fermarsi. Da settimane, si susseguono attacchi a edifici di culto e abitazioni provocando diverse decine di morti e centinaia di feriti. Stiamo dunque assistendo ad un massacro senza soluzione di continuità in cui uomini, donne, vecchi, bambini, vengono intimoriti, intimiditi, colpiti, uccisi, con il chiaro obiettivo di spargere terrore per costringerli ad abbandonare il loro Paese. Vengono portati al punto di doversi nascondere e fuggire. La religione diviene allora il grimaldello per istillare l’odio e lo scontro per obiettivi tutti politici.
Quest’utilizzo distorto della religione, che abbraccia il potere in una morsa micidiale, costituisce la vera ragione di un conflitto che certi poteri forti intendono legittimare come obbligo dettato dalla propria fede. Si tratta di quella manipolazione semantica del termine ‘jihad’ che perde il proprio significato originario, quello legato al concetto di sforzo interiore per migliorare se stessi, per essere schiacciato invece dall’interpretazione che inquadra il ‘jihad’ come conquista dello spazio vitale da parte dei musulmani, per proseguire il cammino verso la realizzazione del Dar Al Islam.
Non a caso gli ultimi attacchi si sono verificati dopo le minacce giunte da Al Qaeda contro i cristiani d’Egitto. Fatto duramente condannato anche dal consigliere dello sheykh dell’Università di Al Azhar de Il Cairo per il dialogo interreligioso, Mahmoud Azab, che ha espresso solidarietà agli arabi cristiani e ferma condanna agli attacchi alle chiese in Iraq e altrove. Ha così ribadito quanto era già stato affermato dall’imam Mohammed Rifai al Tahtawi lo scorso 28 ottobre a margine dell’ultimo Sinodo, secondo il quale “i cristiani in Medio Oriente sono una ricchezza culturale e civile per la nostra società. Noi siamo attenti a preservare il ruolo delle comunità cristiane nei paesi musulmani perché l’Islam ci invita a rispettare l’altro e a osservare quanto di buono può portare lo scambio tra culture e civiltà diverse”.
La questione della presenza cristiana in Medio Oriente tocca inoltre il delicato tema della cittadinanza. In un suo recente intervento Padre Samir Kahil Samir ha ricordato che le conclusioni dell’ultimo Sinodo sono giunte alla necessità di collaborare insieme – cristiani, musulmani ed ebrei – per fermare l’estremismo e garantire piena cittadinanza ai cristiani nelle società mediorientali, laddove essi sono considerati cittadini di serie B e hanno uno statuto giuridico di seconda classe. Come ricorda Padre Samir, quando, nell’XI secolo, il sistema giuridico musulmano si strutturò, cristiani ed ebrei vennero considerati come protetti dal potere musulmano, in cambio della sottomissione: ciò conferiva loro lo statuto di ‘dhimmi’.
Il concetto di cittadinanza per come lo intendiamo oggi, figlio del progresso del diritto positivo europeo, non viene riconosciuto nel sistema giuridico islamico che si basa su una certa dicotomia operata seguendo il criterio del credo religioso, attraverso la Shari’a. Ciò ha prodotto la gemmazione di società di stampo teocratico per le quali i diritti umani passano spesso in secondo piano e dove spesso la legge per alcuni appare più uguale… Non è errato allora considerare che venga operata una discriminazione che, partendo dalla sfera religiosa, si rifletta in tutti gli ambiti della vita pubblica e sociale.
Per i Paesi del Medio Oriente, riconoscere pari dignità a tutti i propri cittadini, compresi cristiani ed ebrei, significa non solo allinearsi alla società dei diritti – e, aggiungerei, dei doveri – universali, ma imboccare la via di quel principio di laicità positiva che auspichiamo per favorire lo sviluppo umano, intellettuali e civile dei Paesi Arabo-musulmani e che il Marocco, nelle ultime dichiarazioni del Re Mohammed VI in visita a Londra, ha già fatto proprio. Ed è assolutamente paradossale il fatto che sotto il regime di Saddam Hussein, i cristiani fossero salvaguardati, mentre con lo sciita Maliki stiano insorgendo questi gravi disordini. Chiediamoci: come mai?
Si badi bene: ciò non vuol dire dovere rinunciare al proprio sistema etico-morale, ma riconoscere l’essenziale principio di pluralismo che contraddistingue il vero spirito della democrazia su cui tutti moderni Stati Nazione si fondano. Ammettere l’esistenza e la legittimità del diverso, dell’altro da sé, può allora, sì, risultare elemento di insostituibile ricchezza e partecipazione civile. In Occidente, come in Medio Oriente. Affinché i musulmani comprendano che alla richiesta di diritti debba corrispondere non solo l’adempimento di speculari doveri, ma la concessione degli stessi diritti anche a chi è diverso da loro.