Julian Assange è stato di parola: le Elezioni Usa 2016 devono ancora una volta fare i conti con le rivelazioni di WikiLeaks. Pochi giorni fa infatti sono state diffuse oltre 2mila email di John Podesta, direttore della campagna di Hillary e uomo di fiducia dei Clinton fin dai tempi della presidenza di Bill. Mettiamolo in chiaro fin da subito: nei documenti svelati dall’organizzazione di Assange non c’è nulla di così sconvolgente da sovvertire l’andamento della campagna elettorale, ma c’è quanto basta per dare fastidio alla democratica e soprattutto per dare un po’ di ossigeno a Donald Trump. E proprio il Repubblicano, dalla Florida, dove si è recato per un comizio, ha esordito con un “Io amo WikiLeaks” che la dice tutta su quanto l’incursione del sito anti-segreti faccia bene alla sua corsa alla Casa Bianca. Nelle email trafugate a John Podesta c’è di tutto: si va dalle lamentele dei finanziatori di Hillary rispetto alla figlia Chelsea, descritta come una “ragazzina viziata” che non ha ancora deciso cosa fare nella vita, fino ai timori espressi sulla forza politica di Clinton. Quando ancora la nomination democratica era lontana dal materializzarsi, dallo staff di Hillary temevano ad esempio la discesa in campo di Joe Biden, il popolare ed esperto vicepresidente dell’amministrazione Obama che a lungo ha temporeggiato prima di comunicare la propria rinuncia alla corsa per la presidenza. Ma non sono soltanto questi i “timori” di Hillary e dei suoi sostenitori: il consigliere politico Brent Budowsky, ad esempio, scriveva a Podesta preoccupato del fatto che il futuro di Hillary dipendesse dalla vittoria di Trump nelle primarie repubblicane, indicando di fatto il tycoon come il candidato più debole tra quelli ai nastri di partenza nel Gop. Del resto, come emerge nello scambio di email tra Podesta e una consigliera di Hillary, l’ossessione della Clinton era Jeb Bush. Il rampollo di una delle famiglie più influenti d’America veniva infatti indicato inizialmente come il grande favorito delle primarie del Grand Old Party, ma con l’andare delle settimane la carenza di carisma e l’ascesa di Trump fecero sgonfiare la sua candidatura costringendolo al ritiro. Nella documentazione diffusa da WikiLeaks è riportato anche il dialogo tra Podesta e Huma Abedin, la consigliera più vicina ad Hillary Clinton, che si domanda se sia possibile sopravvivere alle domande della stampa che chiede conto alla democratica delle sue situazioni più scottanti: dalle email cancellate da Segretario di Stato fino all’attività della Fondazione Clinton. Nonostante queste rivelazioni fastidiose, Hillary prosegue per la sua strada, convinta che ormai il declino di Trump sia inesorabile. Per cercare di assicurarsi il successo, la democratica bombarda di spot pubblicitari gli stati in bilico e ce n’è soprattutto uno che Hillary considera decisivo: la Florida. Considerando che il conteggio dei Grandi Elettori quasi sicuri appannaggio della democratica è pari a 242 e che la quota per vincere è posta a 270, bastano proprio i 29 voti assicurati dal Sunshine State per garantirsi la vittoria. Ad oggi la media dei sondaggi fornita da Real Clear Politics attribuisce alla Clinton un vantaggio di poco superiore ai 2 punti percentuale, un margine che a 25 giorni dalla data del voto non mette comunque Hillary al riparo da eventuali rimonte. Per tentare di responsabilizzare al massimo i suoi simpatizzanti ed elettori sull’importanza di recarsi alle urne, Clinton ha rispolverato l’uomo che per un pugno di voti, proprio in Florida, perse le Elezioni. Stiamo parlando di Al Gore, il democratico che nel 2000 sfidò George W. Bush, ottenne più voti di lui a livello nazionale, ma a causa di 537 preferenze in più conquistate dal repubblicano nello Stato della Florida vide svanire i 25 Grandi Elettori decisivi perdendo le prime elezioni statunitensi del terzo millennio. Dal campus affollatissimo del Miami Dade College, proprio Al Gore ha chiarito ai giovani che lo hanno visto salire sul palco insieme a Clinton, soprattutto a quelli che non potevano ricordare gli accadimenti del 2000 perché troppo giovani, come lui sia la prova vivente che ogni singolo voto può contare per il futuro degli Stati Uniti. E non è tanto il peso in termini elettorali dell’ormai 68enne Al Gore a contare, soprattutto considerando che l’ex vicepresidente dell’amministrazione Clinton ha da tempo abbandonato l’agone politico diventando un protagonista internazionale della lotta al cambiamento climatico che gli è valso il Premio Nobel per la Pace nel 2007, quanto il messaggio voluto lanciare da Hillary, che non dà nulla per scontato, neanche la sua vittoria, consapevole che questo sarebbe il regalo migliore che Trump potrebbe sperare di ricevere. Hillary conosce i tranelli della politica, sa quanto sia importante coinvolgere gli americani e di non potere lasciare nulla al caso. Per questo motivo, in una lunga intervista al New York Times gioca anche sull’inadeguatezza di Donald Trump per spaventare chi per un attimo ha valutato anche l’ipotesi di restare a casa l’8 novembre, descrivendosi come l’ultimo ostacolo tra loro e l’Apocalisse. Forse basterebbero anche toni meno catastrofici a portare a casa quella che per Clinton è la partita della vita, ma da “secchiona” quale si è sempre definita Hillary non può accettare la sufficienza in questo esame: cerca la lode e se possibile anche il bacio accademico. Tra WikiLeaks e Al Gore, dunque, vi è il divario di una campagna elettorale che sembra correre su due binari che non si incrociano mai: e se Trump non può far altro che appellarsi agli scheletri nell’armadio di Clinton, Hillary può invece sperare di convincere gli americani per la bontà della sua proposta e per la passione che anima la sua politica. (Dario D’Angelo)