I migranti mandano in pezzi l’Unione Europea. Oggi, a Berlino, comincia un pre-vertice dal quale si sa già che non uscirà alcuna decisione unitaria, con la cancelliera Merkel che vede scadere il tempo concesso da Horst Seehofer per trovare una soluzione (in Baviera si vota a ottobre), Macron che nega l’esistenza di una crisi migratoria in Italia e Di Maio che lo addita come “nemico numero uno” del paese. Sullo sfondo c’è il tentativo franco-tedesco di accelerare l’integrazione europea per evitare la disgregazione dell’Ue. Secondo Massimo D’Antoni, economista, docente di scienza delle finanze nell’Università di Siena, la crisi migratoria può spalancare le porte alla fine della moneta unica. Ecco perché.
Professore, gioverebbe all’Italia sottoscrivere l’accordo bilaterale Merkel-Macron del vertice di Meseberg?
La proposta, che è stata molto indebolita rispetto alla versione iniziale, prevede un embrione di bilancio comune dell’eurozona e l’inserimento del meccanismo intergovernativo del Mes nel quadro comunitario. Ma il Mes rimane sempre un sistema che funziona con una stretta condizionalità. Di fatto continuerebbe ad avere nei confronti del paese che ne chiedesse l’aiuto, il ruolo e i compiti della Troika.
Un film già visto nelle politiche europee.
Lo definirei un Fiscal compact con in più, oltre al bastone, la carota del risanamento: impedisco che tu fallisca ma poi devi fare quello che ti dico. Mi sembrano soluzioni nel solco delle politiche di austerità che ben conosciamo, destinate a perpetuare il conflitto tra paesi debitori e paesi creditori.
Il protezionismo di Trump minerà l’economia tedesca basata sull’export?
E’ inevitabile. Si dice che la Germania si starebbe orientando verso altri mercati, ma non è chiaro in che misura essi potrebbero effettivamente sostituire il mercato americano come destinatari dell’export tedesco. La Cina? Ha ridotto il suo surplus estero ma non pare un paese disposto a accettare un deficit simmetrico al surplus europeo. Certo la posizione americana metterebbe l’Europa di fronte alla responsabilità, per evitare una crisi, di alimentare la domanda interna.
Una eventualità che dovrebbe indurre la Germania a cambiare almeno in parte il suo attuale modello economico. E con esso le regole europee.
Sono scettico. Il modello basato sul surplus commerciale è strutturale e considerato vincente da parte dei tedeschi. A Berlino non lo cambierebbero. Anzi, c’è da ritenere che in presenza di uno scenario di crisi, la Germania per cercare di aggirare l’ostacolo punterebbe ancor più sulla competitività, cercando di comprimere i costi attraverso politiche dei redditi e un orientamento fiscale restrittivo.
Prevede l’arrivo di una nuova crisi economica o finanziaria?
Diciamo che non la escluderei perché è sempre una possibilità. Più che indizi di una crisi imminente, direi che ci sono sicuramente meno strumenti che in passato per fronteggiarne una eventuale. Quelli fiscali richiederebbero economie in uno stato di salute migliore di quello in cui sono oggi. E quelli monetari sono stati usati ampiamente, con gli effetti tampone che abbiamo visto.
Insomma, non fa previsioni.
No. Però nel capitalismo l’andamento è ciclico, e a fasi di crescita, anche di crescita sia pur relativa come quella di questi anni, si alternano storicamente fasi recessive.
L’Italia?
L’Italia galleggia, e anche uno scossone limitato potrebbe determinare grossi problemi per noi. Gli investitori potrebbero mettere in discussione la solvibilità del nostro debito dando il via a un attacco speculativo, e di fronte questa eventualità non ci sarebbe alcun Mes che tenga. Uguali rischi ci sarebbero sul versante bancario. Se il sistema bancario tedesco andasse in sofferenza, la Germania avrebbe risorse da spendere, non così l’Italia.
Uscire dall’euro sarebbe una soluzione?
Ci consentirebbe, attraverso un riallineamento del tasso di cambio, cioè una svalutazione, di dare maggiore competitività alla nostra economia e soprattutto consentirebbe di realizzare politiche espansive senza compromettere la bilancia dei pagamenti. E’ una eventualità, quella dell’uscita, che a mio modo di vedere un governo euroscettico è certamente disposto a contemplare.
Anche il governo Conte-Salvini-Di Maio?
Dal contratto di governo sono stati cancellati gli aspetti più scabrosi relativi all’euro, però chiunque, se con un po’ di aritmetica mette insieme le promesse, vede che i conti non possono tornare.
Promesse che M5s e Lega devono mantenere.
O M5s e Lega rinunciano a mantenere le promesse, pagando un pesantissimo prezzo elettorale, oppure entrano in rotta di collisione con qualsiasi tipo di flessibilità, palesemente insufficiente, concessa dalle regole europee, arrivando a uno showdown finale.
A quel punto?
O l’Europa accetta di fatto che quelle regole sono accantonate, oppure dice no e fa muro, andando a vedere se l’Italia è veramente disposta a mettere in discussione la moneta unica.
Eppure all’Eurogruppo il ministro Tria ha detto che l’euro non è in discussione.
Ci sono due interpretazioni possibili. Quella prevalente è che Salvini e Di Maio, per far partire il governo, abbiano messo da parte certe velleità e abbiano per questa ragione marginalizzato gli uomini simbolo della critica all’euro, come Borghi e Bagnai. In questo caso il governo potrebbe aver deciso di puntare più sui temi identitari, migranti e lavoro, per distrarre l’attenzione e nascondere il fatto che non riuscirà ad attuare il programma nella sua versione più radicale.
Ed è una chiave di lettura che la convince?
Per la verità no, perché fa Di Maio e Salvini più sprovveduti di quanto non credo che siano. Sappiamo tutti che si possono fare le sparate più varie, ma se chi sta al governo non mantiene le promesse sui temi economici, può salutare Palazzo Chigi in breve tempo.
Quindi?
Il tema dell’euro come “gabbia tedesca”, per usare le parole di Paolo Savona, potrebbe essere stato messo in secondo piano per puntare ad un rafforzamento politico del governo, sparigliando le carte e tentando di imporsi in sede europea su altri temi, comunque dirimenti, come quello delle politiche migratorie. Se fosse così, lo scontro sui temi chiave di politica economica, moneta unica compresa, sarebbe solo rimandato.
Magari alle elezioni europee, o subito dopo?
Per come sta esplodendo in mano ai leader europei la questione migratoria, rinviare al 2019 può anche essere una mossa tattica, una scommessa, sperando di trovarsi di fronte a tempo debito un interlocutore molto più disunito, assai meno capace di prove di forza, o, perché no, in grave crisi. Le elezioni potrebbero determinare un riequilibrio profondo all’interno del parlamento europeo.
La sua sensazione?
La mia sensazione è che l’Europa stia vacillando. L’euro non sta funzionando, tenere insieme economie così diverse con una sola politica monetaria crea più problemi di quanti non ne risolva. D’altra parte l’uscita unilaterale è molto rischiosa, difficile da realizzare, e richiederebbe tempi troppo rapidi per quello che consentono i meccanismi democratici. Altra cosa è se si convenisse, almeno tra gli Stati più forti, che la moneta unica non ha funzionato, e quindi con il concorso di tutti si decidesse di trasformare l’euro in una cosa diversa da quella che è.
D’accordo, ma la Germania?
I tedeschi hanno già metabolizzato e accettato la possibilità che qualche paese possa decidere di uscire dall’euro. Si tratterebbe di capire se a prevalere è l’interesse a tenere tutta l’Europa agganciata alla stessa moneta per trarne vantaggi per il proprio export, o la consapevolezza dei costi che comporta il mantenimento dell’euro.
Si riferisce ai costi sociali?
Il terrore della Germania è trovarsi a dover pagare per i debiti altrui. Quella della transfer union, un’unione che preveda trasferimenti permanenti ai paesi periferici a carico dei contribuenti tedeschi, una possibilità che è sempre stata esclusa dai politici tedeschi di ogni colore. Se dovesse risultare chiaro che il mantenimento della moneta unica comporta la necessità di tali trasferimenti, i tedeschi potrebbero accettare un divorzio consensuale, che a quel punto potrebbe essere realizzato in modo meno traumatico rispetto ad un’uscita unilaterale.
(Federico Ferraù)