Una vittoria schiacciante, quella conseguita dal Partito Democratico Giapponese sull’isola del Sol Levante. Yukio Hatoyama segretario del partito entrerà in carica come primo ministro il prossimo 14 settembre forte dei suoi voti, triplicati rispetto alle ultime elezioni e dei seggi (più di 320 su 480) ottenuti in parlamento. Abbiamo chiesto a Francesco Sisci di commentare questa vittoria storica.
La vittoria del Partito Democratico giapponese ha suscitato scalpore in tutto il mondo. Per quale motivo?
Il punto principale della vicenda è che per la prima volta dal dopoguerra ad oggi il monopolio di potere detenuto dal Partito Liberaldemocratico giapponese è stato sconfitto. C’è un nuovo partito, il Partito Democratico del Giappone che ha vinto con una stragrande maggioranza. Per amor di precisione già una volta, nel 1993, il partito Liberaldemocratico aveva perso le elezioni, ma ciò era avvenuto in favore di una coalizione per così dire rabberciata. Infatti nel giro di pochi mesi l’LDP tornò al potere come se nulla fosse accaduto. Questa volta però è diverso perché il Partito Democratico è una formazione forte con un programma, per quanto vago, di forte cambiamento. Basti pensare che dall’ultima elezione il Partito Democratico giapponese ha quasi triplicato il numero di voti. Quindi è chiaro che il Giappone vuole un cambiamento deciso, vuole voltare pagina.
Dopo un anno solo di governo del premier Taro Aso?
Per capire la brevità del governo di Taro Aso bisogna comprendere che in Giappone l’avvicendarsi dei primi ministri è tipico, quasi una tradizione. Un po’ come accadeva da noi durante i governi democristiani, anche se il meccanismo è un po’ più complicato. Di norma comunque il primo ministro dura uno o due anni per accordi di fazione. I “turni” non superano quasi mai due anni, ma il partito è sempre lo stesso. Anche sotto tale versante questo è un voto di svolta, naturalmente il problema è: svolteranno davvero?
Quali sono le principali riforme che il Partito Democratico, la nuova maggioranza, intende attuare in Giappone?
Il primo obiettivo di rottura, e anche il più difficile, è il potere della burocrazia. La burocrazia ha dominato il governo giapponese per gli ultimi 100-150 anni. È uno dei tre pilastri del patto politico che ha governato l’isola dal dopoguerra ad oggi. Gli altri due sono le grandi aziende e l’LDP. Ora questo nuovo Partito Democratico, che però è fatto di transfughi, di molti transfughi dell’Ldp, afferma la volontà di limitare il potere della burocrazia. Ma è possibile che intenda realizzare un’altra riforma: limitare e trasformare il potere delle grandi aziende a partecipazioni incrociate. Però si tratta di trasformazioni tutte molto difficili.
Per quanto riguarda la politica estera cambierà qualcosa?
Cambiare la politica estera dovrebbe risultare molto più facile, anche perché la vecchia politica estera non ha più senso. Fino ad oggi il Giappone ha cercato di essere il paladino dell’America in Asia. Ora che però gli Usa sono riusciti a instaurare un dialogo diretto con la Cina e anzi la preferiscono come interlocutore orientale, il Giappone mira a cambiare radicalmente la propria politica nei confronti dell’intera Asia. Quindi è probabile che assisteremo a un miglioramento dei rapporti con il continente, soprattutto con la stessa Cina.
Qual è invece la nota dolente per quel che concerne gli affari interni del Sol Levante?
La debolezza economica. In Giappone il modello di crescita è andato in crisi. C’era un modello di grande efficienza di alcune aziende e di grande inefficienza da parte di altre. Quelle imprese incentrate sull’esportazioni sono superefficienti, ma quelle dedicate al consumo interno sono tuttora molto inefficienti. Il sistema economico giapponese era sorretto principalmente dalle esportazioni. Negli ultimi vent’anni però il settore è stato colpito da un lento e inesorabile declino. Ora la sfida è far girare l’economia in modo differente rispetto agli ultimi anni.
Da un punto di vista politico che personaggio è Yukio Hatoyama?
Hatoyama è un “sangue blu” della politica giapponese. Il padre era ministro degli esteri, il nonno primo ministro, il bisnonno presidente del parlamento. Proviene dall’LDP che ha lasciato nel 1993 ed è stato fra i fondatori del Partito Democratico. Essere un discendente di politici rappresenta un modello classico per la politica giapponese. Molti riformatori in Giappone vengono dalla classe dirigente e politica. Coloro che realizzarono le riforme del dopoguerra erano dei privilegiati e non certo gente della strada. Hotoyama in particolare proviene da una famiglia molto ricca, il nonno materno era il padrone della Bridgestone e la madre, erede della fortuna paterna, è stata la prima a finanziare il nuovo partito. Detto questo egli ha comunque dichiarato di voler farla finita anche con questo aspetto di politica ereditaria che caratterizza il suo Paese.
Anche in Giappone si respira un clima di guerra nei confronti della “casta”, quindi.
È molto più della “casta” nostrana, o di una qualsiasi casta europea. Perché effettivamente tutti i politico sono figli, nipoti e pronipoti di altri politici. È un processo tipico e sistematico non da adesso, ma da 100-150 anni. Sono dei “samurai” della politica, i ruoli non sono altro che dei titoli ereditari. E Hatoyama, nonostante provenga egli stesso da una famiglia politica, vuole porre fine a tale meccanismo.
La crisi economica può avere sortito qualche effetto all’interno di queste ultime votazioni?
Sì. Il Giappone è in crisi ormai da vent’anni, dalla fine degli anni ottanta. L’elemento di maggior impatto nella coscienza collettiva è il “sorpasso” della Cina. Tra la fine di quest’anno e l’inizio dell’anno prossimo il Pil cinese dovrebbe superare quello giapponese per la prima volta in almeno 100 anni di storia. Cambierà il rapporto politico, economico e diplomatico fra i due grandi paesi. È finito il periodo in cui la Cina era considerata il malato dell’Asia e il Giappone aveva il primato fra i paesi asiatici.