La domenica mattina, a Gerusalemme. Passeggiando per la città vecchia è normale imbattersi nei numerosissimi pellegrini diretti al santo Sepolcro, mentre al Muro del pianto gli ebrei provenienti da tutto il mondo invocano Dio nel loro luogo più sacro che sia sopravvissuto al tempo. Anche alla moschea di Al-Aqsa c’è il solito via vai di musulmani in visita alla spianata dove la tradizione islamica ricorda l’ascesa di Maometto al cielo. Ma subito fuori casa, facendo qualche passo, mi accorgo che non è una domenica come tutte le altre. Attorno a me vedo tantissimi soldati che in religioso silenzio attendono istruzioni dai loro superiori. E’ un vero proprio esercito quello che affolla la città santa in questa domenica già primaverile e soleggiata.
Normalmente c’è un piccolo contingente che intralcia la fila al centro commerciale dove faccio colazione. Oggi a intrattenere la cassiera c’è un plotone di ragazzini in divisa con il loro zaino in spalla in attesa di partire per chissà dove. Dal bar che sovrasta Gerusalemme osservo tutte le persone che guardano incuriosite l’esercito della stella di Davide marciare per la città. Evidentemente ancora non sanno ciò che apprendo sfogliando le prime pagine del quotidiano Haretz: Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha approvato la costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania, in risposta all’uccisione di una famiglia di coloni nell’insediamento di Itamar, vicino a Nablus.
L’allerta a Gerusalemme – prosegue l’articolo – è altissima. Ecco il perché di tutti quei soldati.
Il fatto ripreso da Hartez ha fatto rapidamente il giro del mondo e risale a qualche giorno fa: la famiglia, composta dai genitori, due bambini e un neonato è stata pugnalata durante la notte di venerdì. Secondo la stampa e il governo israeliani i responsabili sarebbero dei miliziani palestinesi, ma non è stata ancora accertata la loro responsabilità. E se Hamas si dice positivamente sorpreso per questo brutale omicidio, la gente del posto non si dimostra poi tanto meravigliata. Per le strade si mormora che la tensione tra palestinesi e coloni ebrei nella zona era alta già da giorni. Lunedì i soldati israeliani avevano sparato proiettili contro i palestinesi, che si erano scontrati con i coloni nei pressi di Nablus; dieci di loro, oltre a un colono, erano rimasti feriti nelle violenze.
Oggi, mentre l’esercito blocca interamente ogni strada di Nablus, (perfino alle ambulanze è interdetto il passaggio), un funzionario governativo ha dichiarato che saranno costruite tra le 300 e le 500 case. La risposta di Israele è chiara: non solo una caccia all’uomo per punire i colpevoli, ma una ritorsione vera e propria che Abu Mazen ha definito “inaccettabile, e che comporterà conseguenze gravissime”. Anche se nessuno, e probabilmente neppure Abu Mazen, potrebbe dire quali.
Quello di Itamar è stato il più grave attentato contro israeliani dal marzo del 2008, quando un palestinese penetrò in una scuola religiosa ebraica a Gerusalemme e uccise 8 studenti con un’arma automatica.
E come in quel marzo 2008, la ricerca di giustizia trova in entrambi i leader politici due risposte parziali. Da una parte le ritorsioni, dall’altra un rancore mascherato da impotenza. Quale atteggiamento renderà maggiore giustizia a questa famiglia brutalmente trucidata? I nuovi insediamenti che farà costruire Netanyahu o la reazione – più o meno energica, non sappiamo ancora – di Abu Mazen? A sentire i commenti della gente sembra che la partita si giochi ancora qui, tra chi disprezza gli “israeliani guerrafondai” e chi odia i “palestinesi terroristi”. Di quella famiglia, come di quegli otto studenti, tutti si sono già dimenticati. Perchè dove prevale l’orgoglio, il perdono è una chimera, e la giustizia un’utopia.