La vittoria di Francois Hollande alle elezioni presidenziali francesi è «una bella notizia per l’Europa», dice Pier Luigi Bersani. «Ora si può imboccare la strada del cambiamento», prosegue il segretario del Partito Democratico, secondo cui il successo del candidato socialista è nato dalla «confluenza di un elettorato di sinistra e di un centro democratico contro una destra condizionata da pulsioni reazionarie».
«Eppure la Francia non è il nostro domani – ammonisce Fausto Bertinotti, intervistato da IlSussidiario.net –. Il risultato francese non annuncia il futuro come ciò che è uscito dalle urne in Grecia».
Lei non crede quindi alla “svolta” su cui sembra scommettere il centrosinistra italiano?
Per non essere frainteso è necessaria una premessa. Il risultato francese, a mio avviso, è comunque significativo perché vede la sconfitta della destra di governo in un Paese importante dell’Europa. Come si è visto in piazza della Bastiglia, torna poi un’idea di gauche che addirittura trascende il risultato elettorale.
Detto questo non bisogna sfuggire ai dati della realtà.
A cosa si riferisce?
Nel processo di adesione al modello di capitalismo finanziario globalizzato che si sta imponendo in Europa, sotto l’egida della Banca centrale europea, la situazione francese è per sua fortuna più arretrata. Questo a causa di alcune persistenze che caratterizzano il suo ciclo storico: un forte senso dello stato nazionale, il sentirsi francesi (non a caso Sarkozy da sconfitto dichiara: “torno a essere un francese tra i francesi”) e una diffidenza nei confronti dell’Europa tecnocratica, che già aveva causato la vittoria del referendum contro il Trattato europeo. Si aggiunga poi una divisione ancora attuale e reale tra destra e sinistra: lì la gauche è la gauche e la droite è la droite, per intenderci.
Per tutti questi motivi, quell’arretratezza positiva di cui parlavamo lascia la Francia con un piede nel vecchio ciclo, in quel compromesso democratico che si è realizzato nell’Europa del Dopoguerra.
È per questo che secondo lei Hollande non rappresenta il futuro?
Può sembrare paradossale, ma è così. La pur interessante e meritoria vittoria di un socialista francese non depone a favore della tesi di un cambiamento delle politiche generali di governo dell’Europa. E anche il nuovo rapporto tra Francia e Germania di cui tanto si parla, potrebbe limitarsi a un temperamento delle politiche di rigore.
Secondo lei l’asse Francia-Germania non si incrinerà?
No, continuerà ad esserci. Con tutta probabilità si porrà l’obiettivo di comporre in maniera meno tragica di quanto è avvenuto fin qui il primato di una politica di rigore con le esigenze di crescita. Meglio di niente? Certo, ma nulla ha a che fare con quel cambiamento di rotta necessario che, a mio avviso, richiederebbe una politica per l’occupazione, una politica contro le diseguaglianze e una riconversione ecologica della nostra economia.
Il fatto che le classi dirigenti europee siano alla ricerca di qualche correttivo, a cominciare dalla Germania, fino ad oggi gendarme delle politiche di rigore, non deve trarre in inganno.
Quali conclusioni trae invece dalle elezioni che si sono tenute in Grecia?
Il caso greco, pur con tutta la sua sconnessione e drammaticità e con il suo dar fuoco alle polveri di una sostanziale ingovernabilità, mi sembra più illustrativo del futuro che ci attende.
In questo paese le politiche di devastazione sociale e la crisi economica, il travestimento di un governo tecnocratico in un esecutivo di unità nazionale, ha ridotto la dialettica allo scontro tra l’oligarchia e la piazza in rivolta, condannando i partiti di governo, indipendentemente dal fatto che uno si chiamasse socialista e l’altro conservatore. Non solo, assieme a una preoccupante crescita di un populismo di destra, meno rigorosa che in Francia, si è prodotto il primo sorpasso di una forza di sinistra alternativa nei confronti del partito socialista di governo. È questo il fatto totalmente innovativo.
Lei farebbe un parallelo con il caso italiano?
No. Sebbene la crisi sociale in Italia sia molto pesante non ha la dimensione tragica del caso greco. L’Italia non è la Grecia, se lo dicessi farei un imbroglio. Inviterei però i partiti a non ragionare sull’Italia di oggi, ma sulla Grecia intesa come segno premonitore.
Le sinistre, in particolare, dovrebbero guardare al caso greco come a uno spettro. La soluzione del problema andrebbe anticipata con un cambio radicale sia sul terreno del governo del Paese, sia su quello dell’organizzazione della sinistra.
Puntare sul modello socialdemocratico per il Pd sarebbe quindi un errore?
La risposta, a mio avviso, non è un aggiustamento del centrosinistra, ma il Big Bang, la destrutturazione dell’assetto politico esistente e la costruzione di un nuovo soggetto di tutta la sinistra, capace di un rapporto con i movimenti altrimenti impossibile. Se invece le sinistre rimangono due sorgono i problemi, soprattutto se vince quella di governo e ne rimane una all’opposizione, come dimostra il caso di Mélenchon e di Hollande.
Riguardo all’avanzata del populismo e all’antipolitica, a cui faceva riferimento prima, che insegnamenti bisogna trarre secondo lei?
In una situazione come questa, l’economia unifica l’Europa, la politica la divide. Ogni paese ha la sua storia e la forma che prende il populismo non è uguale ovunque. Per intenderci è impossibile immaginare una Marine Le Pen in Italia o un Beppe Grillo in Francia e sarebbe anche sbagliato definire populismo di destra il Movimento a 5 Stelle.
Detto questo, I populismi stanno raccogliendo l’opposizione alle tecnocrazie e spesso, anche se non necessariamente, trovano uno sbocco a destra. A questo proposito, il successo del Front National in Francia ha dimensioni gigantesche ed evidenzia, purtroppo, una tendenza europea. Il rischio poi che, in presenza di un governo socialista, i suoi consensi aumentino ancora, non è assolutamente da scartare…
(Carlo Melato)