Tempo di Avvento, ormai Natale. I quartieri cristiani di Aleppo, negli anni passati, in questo periodo si riempivano di luminarie, di addobbi; le facciate delle case e i balconi traboccavano di festa. Anche troppo, è vero. Ma era pur bello, nel vento pungente che sferzava le strade, lasciarsi scaldare il cuore da quell’annuncio di luce. Quest’anno la gente muore di fame, in molti quartieri non c’è acqua, non c’è pane, non c’è corrente, non c’è gasolio. Non c’è lavoro. Non c’è sicurezza. In tutta la Siria, i prezzi sono spaventosi, anche quelli dei generi di prima necessità. Grazie alle distruzioni della guerra e alle sanzioni internazionali il paese è in ginocchio, la gente soffre davvero.
Cosa vuol dire celebrare il Natale, quest’anno, in Siria? E’ possibile? Che senso ha? Proviamo a dirvi come lo stiamo vivendo noi. Innanzitutto, sì: ci prepariamo alla festa. Perché il Natale non è un sentimento zuccheroso, la nostalgia del sentirsi buoni come quando eravamo bambini. La gioia del Natale è una gioia dirompente, è l’annuncio delle nostre solitudini riempite, è la luce che viene nella notte. Il Bambino che nasce è colui che viene per sconfiggere la morte. Non a caso nelle icone Gesù non nasce in una stalla, ma in una grotta, e il fondo è scuro, la greppia è come il sepolcro. Lì Dio si spoglia, per darci la vita.
Se ci pensassimo! Se davvero ci fermassimo e cercassimo di comprendere… Dio con noi! Un Dio che si fa carne, nella debolezza di un bambino. Questo è l’annuncio folle dei cristiani. Ma di tanta pazzia funesta che riempie il nostro mondo, quella cristiana è davvero la più deleteria? E’ forse più “realista” la promessa di vita che ci offre la politica internazionale? E’ curioso, ma già duemila anni fa l’Occidente di allora imponeva la sua politica. Si chiamava Pax Romana, con i suoi vantaggi e le sue schiavitù. Oggi si chiama libertà, diritti dell’uomo, democrazia. Con le sue conquiste e le sue schiavitù.
Viene il Signore, fra l’indifferenza di alcuni, fra la povertà e la sofferenza di molti. Come duemila anni fa. I grandi banchettavano nelle regge, i poveri si davano da fare per guadagnare a giornata. Così ci racconta il Vangelo, così è la storia di oggi. Gesù nasce povero, fuori città… Non c’è posto per lui. Alla grotta di Betlemme vanno i pastori, i semplici, gli emarginati di quel tempo. Quelli che non potevano neppure risiedere in città, perché impuri. E vanno i Magi, i sapienti, coloro che cercavano davvero il senso. E poi… ma sì, c’è posto anche per l’asino e per il bue: per far compagnia al Signore, per scaldarlo come possono, da povere bestie.
Certo, il Natale ci interroga. Non è una risposta facile, è una risposta di Vita che non elimina la morte. La vince, la redime, ma non ce ne toglie il carico. E questo frammento di storia della Siria è duro, duro da comprendere, duro da vivere. Pieno di morte. Troppi elementi in gioco, troppe verità e menzogne da tutte le parti, troppi interessi intrecciati l’uno con l’altro. Abbiamo nel cuore tante storie: donne e bambini, gente innocente, da una parte e dall’altra, uccisa nei bombardamenti, nelle esplosioni, nelle repressioni, nelle vendette. Gente che ha perso tutto, che ha lasciato le case, i villaggi. Chiese distrutte, moltissimi cristiani fuggiti. Portiamo nel cuore le aspirazioni di libertà, di giustizia, di tanti siriani, i veri manifestanti pacifici, rimaste soffocate da un gioco internazionale più grande, che li ha esclusi di fatto poiché hanno rifiutato di prendere le armi e di invocare l’intervento armato dei paesi occidentali.
Quest’anno per le strade non ci sono luminarie, ma fotografie dei tanti soldati morti, ragazzi, a centinaia, tacciati con disprezzo di “lealismo”, letteralmente fatti a pezzi se cadono nelle mani dei ribelli… Davanti agli occhi abbiamo anche le immagini dei tanti mercenari, dei salafiti giunti da ogni parte per la jihad: anch’essi per la maggior parte giovani, ragazzi imbottiti di satellitari, di droga e di armi. Anch’essi morti a centinaia. Pensiamo a tanti amici, costretti a lasciare le loro case, a tanti altri che ci hanno aiutato, e che non riusciamo più neppure a rintracciare. Pensiamo a George, 35 anni, rimasto senza lavoro: ha affittato una macchina, per trasportare merci, guadagnare qualcosa e dare da mangiare ai suoi figli. Ucciso da un cecchino nei territori vicini alla Turchia. Una storia fra infinite altre.
Ma, oggi come allora, non dobbiamo farci ingannare: l’ultima parola non è questa, la storia vera non la fanno i potenti della terra. “Dio è il più grande”, è vero. Ma è il più grande nell’amore, per questo è il solo veramente libero, e che può liberarci.
A noi è chiesto solo di comprendere, cioè “prendere tutto” e metterlo davanti alla mangiatoia. Anche le cose più atroci, più aberranti, le più dolorose e le più vili, dove va perduta la dignità dell’uomo, tutto dobbiamo accogliere, fare nostro, e portare ai piedi di questo Bambino. Perché Lui solo è la risposta. A noi non è chiesto di capire ogni cosa, ma di allargarci per far spazio alla verità di Dio che sola può giudicare secondo giustizia e diventare misericordia per tutti.
Noi per più di cinque anni abbiamo vissuto ad Aleppo; dal 2010 ci siamo trasferite ai confini della provincia di Homs, in un piccolo villaggio cristiano dove stiamo cercando di costruire il nostro monastero, fornendo lavoro almeno a qualche persona povera di questa zona. Siamo semplicemente qui, vivendo la nostra vita benedettina, pregando e lavorando, condividendo le vicende della nostra gente, la pena, la tristezza, il dolore, la violenza, l’impotenza. Ma anche sentendo attorno a noi una sorta di indomita resistenza, una capacità di solidarietà che non si è spenta, un attaccamento alla vita che diventa in qualche modo speranza, senza nome, senza illusioni, ma tenace…
E’ questa speranza che portiamo, per tutti, al presepio, per questa speranza preghiamo. Vieni, Signore Gesù.
(Suor Marta, Homs. Siria)