I legali che rappresentano i familiari delle circa ottomila vittime dell’epidemia di colera, scoppiata ad Haiti nel 2010 subito dopo il terremoto, hanno fatto ricorso in un tribunale di New York contro le Nazioni Unite per ottenere un risarcimento. Per il pool di avvocati i caschi blu sarebbero i veri responsabili dell’infezione: una base di militari nepalesi dell’Onu avrebbe utilizzato un fiume come scarico fognario. Lì, secondo diversi rapporti di esperti, è nato il ceppo della malattia. Il colera, prima di allora, non si era mai manifestato nel Paese, oggi invece dilaniato dall’epidemia e ancora in ginocchio dopo il terremoto. Per cercare di capire come sono andate le cose in quei drammatici giorni e per saperne di più sulle condizioni della popolazione haitiana che stenta a risollevarsi, Ilsussisidario.net ha contattato Fiammetta Cappellini, cooperante Avsi che da oltre dieci anni vive e lavora in quella sofferente terra.
Lei vive e lavora ad Haiti. Ci racconta che cosa è successo?
Purtroppo è opinione comune che questo Paese sia particolarmente sfortunato, così come è opinione comune, tra gli addetti ai lavori, che questa nuova tragedia fosse quasi inevitabile. A distanza di 9 mesi dal terremoto del 12 gennaio 2010, che ha fatto oltre 200.000 vittime, ad Haiti è scoppiata una violenta epidemia di colera. In tre anni i picchi epidemici si sono susseguiti ed ancora oggi in molti ritengono che la malattia sia ancora in fase endemica.
Il contagio è stato rapidissimo …
Il contagio si è esteso nel giro di 3 settimane a tutto il Paese. Sono serviti a poco i cordoni sanitari attorno alla capitale, in quanto l’epidemia è scoppiata in provincia. Una volta registrati i primi casi a Port-au-Prince, anche in ragione delle condizioni sanitarie estremamente precarie del dopo-terremoto, l’epidemia si è diffusa molto rapidamente, contagiando centinaia di migliaia di persone e facendo in tre anni 8.000 morti.
Eppure Haiti non contava un caso di colera da cento anni …
Fino a tre anni fa il colera ad Haiti non esisteva affatto. Non è una malattia di questo Paese. Dopo il terremoto c’era una attenzione elevatissima nei confronti del rischio di epidemie, ma si temeva altro, non certo il colera. Il colera qui non c’era, non sembrava potesse essere quello il rischio. Certo, con le gravi condizioni di igiene nell’immediato dopo terremoto (ma in realtà ancora oggi…) facevano sì che un’epidemia fosse altamente probabile. L’Onu è sotto accusa: la tesi è che l’infezione si sia diffusa dalla base militare nepalese.
È davvero colpa dei caschi blu?
Rapporti e inchieste, sia del governo haitiano che (soprattutto) indipendenti, sono arrivate tutte alla stessa conclusione: il contagio è partito dalla base dei militari nepalesi delle Nazioni unite accampati nei pressi di Mirebalais, sul fiume Artibonite (il fiume più importante di Haiti, che attraversa il Paese da est a ovest, percorrendo una zona prettamente rurale e molto povera).
Cosa dicono questi fascicoli?
I rapporti che ci sono pervenuti segnalavano delle latrine con scarichi non a norma, che hanno contaminato il fiume. Di fatto, il primo focolaio di contagio è stato identificato nel fiume, con casi sparsi tra la foce e la base dei nepalesi. Nessun caso di contagio (ai tempi del primo allarme) a monte della base.
Crede si possa considerarlo come un rischio strutturale per questi interventi su larga scala?
Io non ritengo che sia un rischio strutturale. Ritengo che in una situazione gravemente deteriorata come il contesto haitiano del dopo terremoto, qualsiasi cosa, anche una piccola scintilla, sia potenzialmente una causa di catastrofe.
Ci spieghi…
Durante la risposta umanitaria del dopo terremoto sono state prese precauzioni di ogni tipo, nella consapevolezza che i rischi fossero altissimi. Una epidemia in quelle condizioni, di qualsiasi malattia si fosse trattata, poteva causare un’ecatombe, ne eravamo tutti perfettamente coscienti.
Perché, cosa si temeva in particolare?
Le malattie potenzialmente pericolose e presenti nel Paese erano diverse. Si è temuto per una epidemia di Dengue, che ciclicamente si manifesta in Haiti e che è presente anche nel pericolosissimo ceppo emorragico. Si è pensato al tifo e si è pensato alla meningite.
Le condizioni igieniche erano così disumane?
La popolazione era ammassata e centinaia di migliaia di persone non erano nelle condizioni di proteggersi con comportamenti igienici accettabili. Temevano una epidemia, ma autoctona. L’errore e’ stato forse nel non considerare la possibilità che una malattia potesse esser portata dall’esterno. Generalmente, lo staff che interviene in emergenza è staff da prima linea, persone sane, robuste, pronte ad affrontare stress, lavoro pesantissimo e a volte privazioni. Nel caso dei nepalesi, stiamo parlando di militari, soldati: vaccinati contro la maggior parte delle malattie, addestrati, controllati dal punto di vista della salute.
Eppure è successo.
La malattia è stata introdotta da portatori sani, assolutamente asintomatici. Paradossalmente, poteva essere un’epidemia di influenza portata da uno starnuto innocuo, nelle condizioni in cui si viveva nel 2010 in Haiti un’ epidemia è sicuramente un rischio che viene sempre considerato nel caso di una grave catastrofe: è scritto anche in tutti i manuali. Ma una epidemia portata dai soccorritori no, questo non è un normale rischio contemplato.
C’è chi accusa l’Onu di aver peggiorato solo le cose o di non aver agito abbastanza. È così realmente? Certamente la responsabilità morale di questa epidemia è un peso importante. Ma non si può dimenticare che la risposta all’epidemia, dalla presa in carico dei malati, al trattamento dei cadaveri, alle sensibilizzazioni per la prevenzione, in altissima percentuale tutte queste operazioni sono state realizzate dalla cooperazione internazionale di risposta umanitaria, con i fondi dei donatori. L’80% di tutti i malati è stato preso in carico e curato da due sole organizzazioni, di cui una ONG internazionale e la Brigata medica Cubana. Questo dice molto della mobilizzazione a livello internazionale.
Lei cosa pensa dell’operato dell’Onu ad Haiti? La presenza delle Nazioni unite in Haiti si è resa necessaria in un periodo di grave crisi politica, in cui il Paese era in preda al caos e alla violenza. L’intervento dell’ONU ha stabilizzato il Paese, rendendolo di fatto meno violento. Ha reso possibile l’accesso a intere comunità ostaggio di violenza e gruppi armati. Ha reso quasi inoffensive le frange più violente della protesta armata nel Paese.
Una presenza ed un operato fondamentale dunque. È triste dirlo, ma io continuo a vedere questa presenza, in questo momento, come una necessita, almeno finche il Paese non avrà un governo forte e capace di gestire in modo autonomo le forze negative che lo agitano.
Ma la popolazione cosa ne pensa? La maggior parte della popolazione, per non dire la quasi totalità, vede in modo negativo la presenza dei caschi blu. Gli haitiani amano la propria terra ed hanno un fortissimo senso di indipendenza, di libertà. L’ONU è accusata da quasi tutti gli haitiani di occupare con la forza il Paese, in modo illegittimo. Secondo gli haitiani, l’ONU dovrebbe andarsene immediatamente e riconsegnare il Paese ai suoi abitanti.
Questa situazione come cambia il rapporto di fiducia tra gli haitiani e chi li vuole aiutare? E’ estremamente problematica. La popolazione spesso non fa distinzione tra l’ONU, i militari della Missione ONU, le Agenzie civili dell’ONU o la cooperazione internazionale.
Anche voi e gli altri cooperanti siete ora guardati con sospetto? Chi opera nella cooperazione allo sviluppo, come chi opera negli aiuti umanitari, paga spesso le conseguenze dell’astio verso la missione ONU da parte del Paese. Questo complica il nostro lavoro e inficia il rapporto di fiducia con la comunità.
In cosa il vostro supporto è diverso da quello delle grandi operazioni umanitarie internazionali? C’è una differenza importante: il rapporto di conoscenza e di stima con la comunità beneficiaria. Chi come AVSI (Associazione volontari per il servizio internazionale, nda) opera nel Paese da tempo, da prima del terremoto, chi opera in cooperazione allo sviluppo e non in emergenza, ha maggiori possibilità di instaurare un rapporto positivo con la comunità, di farsi conoscere. Noi abbiamo gli strumenti per conoscere davvero i nostri beneficiari, per farci conoscere, e questo facilita un rapporto positivo, di comprensione reciproca.
Come aiutate il popolo di Haiti ad affrontare queste sofferenze, che sembrano cosi paradossali? A volte abbiamo anche noi l’impressione che la serie di disgrazie sia destinata a ripetersi senza interruzione. Da che conosco Haiti, non c’è stata pace. Ma noi vogliamo e crediamo fortemente che non possa essere cosi. La miseria di cui questo Paese è vittima, non potrà durare per sempre. Noi crediamo e vediamo ogni giorno che qualche cosa si può fare, che qualche cosa si sta facendo.
Ad averci gli strumenti…Appunto, bisognerebbe avere i mezzi e la capacità per riprodurlo su larga scala, farlo diventare un movimento politico nel senso sano del termine, a beneficio della popolazione. Ma questo ancora nona avviene. E finché la vita degli haitiani sarà questa, il nostro primo impegno continuerà ad essere quello di essere al loro finché nella sofferenza.
Quante persone continua ad infettare e ad uccidere il colera? L’ultimo bollettino del ministero della salute riporta una media di 4.000 nuovi casi al mese e circa 35-40 morti al mese a livello nazionale.
A che punto siamo nella lotta alla malattia? A poco a poco, la virulenza dell’epidemia si attenua. La stagione delle piogge del 2013 ha accompagnato un nuovo picco di colera, ma è stato decisamente più ridotto di quello del 2012. La popolazione ha radicalmente cambiato abitudini, imparato un nuovo modo di creare condizioni igieniche anche nei contesti più impossibili. La malattia rallenta, con un po’ di impegno, nel corso del prossimo anno si potrà considerarla non più epidemica. Purtroppo l’opinione degli esperti è che con le problematiche del Paese, l’eradicazione della malattia sarà impossibile. Ad Haiti, si continuerà a morire di colera.
Qual è nel suo complesso la situazione di Haiti oggi? E’ grave. Gli indicatori di sviluppo del Paese sono bassi, ai livelli dell’Africa Sub-sahariana, alcuni addirittura in decrescita. La popolazione vive per la maggior parte in una povertà inaccettabile. I più elementari diritti non sono garantiti. Noi continuiamo a vedere ogni giorno persone che muoiono di malattie curabili perché non possono permettersi le cure, vediamo generazioni che non hanno prospettive, vediamo un Paese che fatica a costruirsi un domani. Ci sono indicatori di positività e di speranza, ma oggettivamente, la situazione attuale della maggior parte della popolazione è ancora estremamente preoccupante.
(Fabio Franchini)