Il referendum sull’indipendenza del Kurdistan del 25 settembre si è chiuso con una larga partecipazione al voto e più del 90% a favore dell’indipendenza della regione autonoma. Un risultato prevedibile dato che, dal dissolvimento dell’Impero Ottomano, i curdi stanno lottando per l’indipendenza, ponendo gravi problemi agli Stati in cui costituiscono consistenti minoranze: Turchia (18/20% della popolazione totale), Iran (7/10%), Iraq (15/20%) e Siria (7/10%). Non stupisce, perciò, la netta opposizione di questi governi al referendum con minacce perfino di interventi militari: un Kurdistan iracheno indipendente darebbe nuovo respiro alle richieste di indipendenza dei curdi di quei Paesi. Per intanto, Turchia, Iraq e Iran hanno schierato militari o compiuto esercitazioni ai confini del Kurdistan e hanno bloccato il suo spazio aereo.
Anche la comunità internazionale si è mostrata contraria al referendum e la Casa Bianca ha chiesto, inascoltata, al presidente curdo Massoud Barzani almeno un rinvio delle votazioni. Solo Israele si è più o meno schierata in favore, probabilmente per contrapporsi a Teheran, ma anche qui con qualche cautela, come pone in rilievo un articolo del quotidiano israeliano Haaretz. L’autore, David Rosenberg, nell’affermare che non può essere posto in dubbio, sotto il profilo storico e oggettivo, il diritto dei curdi all’indipendenza, si chiede però se “ciò renderebbe il mondo migliore”, aggiungendo “per gli stessi curdi”. Sembra essere un giudizio diffuso tra chi sostiene il diritto dei curdi in linea di principio, ma lo ritiene per il momento inattuabile e comunque pericoloso per la stabilità dell’intero Medio Oriente.
Accanto alle già gravi conseguenze geopolitiche, spingono alla cautela diverse motivazioni locali, come le divisioni di tipo tribale esistenti tra i curdi, la diffusa corruzione, la debolezza economica di un Kurdistan completamente indipendente. Il bilancio della regione autonoma dipende quasi esclusivamente dalla vendita di petrolio e gas naturale ed è stato pesantemente colpito dal ribasso dei prezzi degli idrocarburi. La crisi, che ha già causato una forte crescita della disoccupazione, è aggravata dal fatto che il Kurdistan importa più dell’80% dei prodotti di cui necessita. Turchia e Iran sono in grado di bloccare sia la vendita di idrocarburi che l’importazione di prodotti, blocco cui parteciperebbe ovviamente il governo centrale iracheno. Bagdad ha infatti un contenzioso aperto con Erbil per la vendita degli idrocarburi al di fuori del controllo dell’autorità centrale e ha già attuato ritorsioni finanziarie nei confronti della regione.
Malgrado queste difficoltà, Barzani ha deciso comunque di andare avanti, contando sull’adesione dei cittadini curdi e sulle difficoltà per Turchia e Iran ad attuare concretamente le loro minacce. Una mossa comunque azzardata, originata da questioni di politica interna: il mandato di Barzani, scaduto nel 2013, è stato prorogato al 2015 in base a un accordo tra i due maggiori partiti del Kurdistan, il suo Kdp e il Puk, guidato dal clan dei Talabani. I Barzani e i Talabani sono stati a capo delle due fazioni della guerra civile curda combattuta dal 1994 al 1998 e che ha provocato migliaia di morti. Dal 2015 è quindi venuta a mancare la legittimazione alla presidenza di Barzani, che ha dichiarato che si sarebbe dimesso, indicendo nuove elezioni, dopo aver conquistato l’indipendenza. Il referendum rappresenta perciò una mossa necessaria a Barzani per lasciare il mandato da vincitore, ma difficilmente può portare a una reale indipendenza del Kurdistan, anche se può essere la base per trattare ulteriori margini di autonomia.
Anche in questa prospettiva “minimale”, il referendum rende più difficile la già complessa vicenda irachena. Contro il parere degli esponenti locali del Puk, Barzani ha fatto votare anche nella zona in cui l’occupazione curda è contestata dall’autorità centrale, rendendo così più vulnerabile l’operazione. Questa zona, che ha come centro Kirkuk ed è molto importante per la produzione degli idrocarburi, è stata liberata dai curdi dopo che l’Isis l’aveva occupata in seguito alla ritirata dell’esercito iracheno. E’ un’area in cui sono presenti, accanto ai curdi, anche arabi, turkmeni, protetti dalla Turchia, iazidi e cristiani, i quali temono una “curdizzazione” che limiti i loro diritti. Il referendum rischia di interrompere il processo in corso per individuare un assetto statuale che consenta una pacifica convivenza tra tutte queste componenti.
La questione si inserisce anche nel confronto tra Stati Uniti e Russia in Medio Oriente. I curdi sono stati in prima linea nella lotta contro l’Isis e sono rimasti delusi dalla presa di posizione di Washington sul referendum. Mosca non si è espressa in proposito, ma ha fatto una mossa ben più concreta con gli accordi della Rosneft, la società petrolifera russa controllata dallo Stato. Rosneft era già acquirente di petrolio dal Kurdistan e ha ora siglato un accordo per la costruzione di un gasdotto con cui portare il gas dalla regione al Mediterraneo, attraverso la Turchia. Secondo la Reuters, l’accordo prevede un investimento da un miliardo di dollari e contempla anche lo sfruttamento di cinque nuovi giacimenti.
aL’iniziativa russa rende più oneroso per la Turchia il blocco minacciato contro il Kurdistan e potrebbe riportare al tavolo delle trattative i numerosi protagonisti della vicenda.