Da qualche giorno il mondo occidentale sembra, suo malgrado, essere entrato in quella che oggi chiamare “primavera” araba sembra quasi inopportuno. L’ondata di attentanti e di violente proteste che si sono estese a macchia d’olio in alcuni paesi arabi contro le ambasciate e i consolati americani, e più generale contro l’Occidente e i suoi simboli, non può che creare un certo sgomento in chi aveva sottolineato come, in linea di massima, proprio quell’Occidente che ora è “sotto attacco” fosse stato assente dalle piazze arabe in rivolta, assente come modello ma soprattutto, finalmente, assente come bersaglio.
Le rivoluzioni sono state volute e spesso combattute dai diretti interessati, e questo può essere considerato un vero e proprio risveglio arabo. Ma se da un lato ciò ha rafforzato la consapevolezza nei popoli arabi di poter scegliere il proprio destino, dall’altro ci ricorda che la credibilità e gli esiti di “quelle” rivolte sono nelle “loro” mani, nelle mani di chi ha scelto come e da chi essere governato e nelle mani di chi, scendendo nelle piazze, ha chiesto di essere artefice e responsabile del proprio futuro. Ed è proprio da qui che bisogna partire per comprendere cosa sta accadendo nel mondo arabo, e più nello specifico nella Libia, Paese da cui è partita l’ondata di violenze che sembra avere steso un velo scuro sulle prospettive di dialogo tra Occidente e mondo arabo.
Da questo punto di vista non è tanto importante capire se il tanto discusso film Innocence of muslim, che è costato la vita all’ambasciatore Chris Stevens e ad altri tre funzionari del governo americano, sia stato un pretesto o la reale motivazione degli attentati in Libia, quanto piuttosto ipotizzare quali potrebbero essere i risvolti più immediati di questa nuova e per molti versi inaspettata furia contro il “nemico americano”.
Per cercare di fornire una risposta è in primo luogo necessario tenere in considerazione alcuni fattori importanti, utili a comprendere il “caso libico”, ma, seppure con le dovute differenziazioni, anche ciò che sta accadendo in altri paesi della regione come Egitto, Tunisia Yemen, anch’essi scenari di violente proteste: il ruolo e la reale forza rappresentativa dei governanti, questa volta legittimamente scelti dai cittadini, le effettive attitudini e aspirazioni della popolazione e, infine, l’autorevolezza e lo spazio che i gruppi estremistici ricoprono nel Paese.
Da questo punto di vista, va ricordato che il popolo libico il 7 luglio si è recato alle urne per eleggere i proprio rappresentanti, un passo importante certo, ma più nella forma che nella sostanza se si pensa che già pochi giorni dopo l’insediamento alcune delle principali aree della Libia sono state sconvolte da una serie di attacchi di gruppi salafiti contro gli “eretici” sufi e da altri attentati che hanno gettato nel caos un Paese già allo sbando. Emblematico il fatto che il Ministro dell’interno libico, Fawzi Abdelali, neppure due mesi dopo le elezioni abbia presentato le dimissioni per protestare contro le critiche all’inefficacia delle misure di sicurezza messe in atto nel Paese.
Un Paese, giova ancora ricordarlo, diviso e senza alcuno stato di diritto, in cui gruppi armati composti anche da fazioni jihadiste ne controllano ancora aree nevralgiche e contro cui l’autorità centrale, quella eletta dalla maggioranza dei libici per intenderci, ha dimostrato la più totale incapacità di controllo e gestione.
Con queste premesse è solo una magra consolazione vedere che una parte della popolazione è scesa in piazza per manifestare la sua condanna dell’attentato, forse nella consapevolezza che senza l’intervento della Nato Gheddafi sarebbe ancora al potere. E sempre quella stessa popolazione sta cercando di rimettere in moto la propria economia cosciente, forse, di aver bisogno anche dei “vecchi” partner occidentali per restare in piedi.
Davanti a questo scenario, se è pur vero che il Medio Oriente, o per lo meno quella parte che ha vissuto le rivolte arabe, sembra vivere oggi il tempo dalle manifestazioni di piazza piuttosto che quello degli attentati terroristici, è anche realistico affermare che fintanto che i leader designati dalla popolazione non si dimostreranno in grado di rappresentarne davvero le istanze, anche le aspirazioni di quella parte pacifica rischiano di restare schiacciate sotto il peso dei gruppi estremistici e davanti a questo stato di cose a ben poco serviranno le pubbliche scuse dei governanti al potere.
Ora che il vento delle primavere sembra soffiare “in direzione ostinata a contraria” rispetto alle speranze di chi fin qui è stato più o meno spettatore del cambiamento, è necessario, per lo meno per quanto riguarda il caos libico, prendere atto che forse la strategia americana del lead from behind (letteralmente “guida da dietro”) si è dimostrata poco incisiva, o forse troppo fiduciosa della capacità dei libici di creare da soli il proprio Paese, e da qui ripartire per evitare che dal seme delle rivolte arabe possa germogliare un sistema peggiore di quello a fatica estirpato.